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Il marinaio pescatore

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Barche e marineria di Fano

I pescatori fanesi ai primi del 1900


Annotta. Sull'acqua torbida del canale le barche si dondolano gravi e lente, in attesa di poter partire, e fanno cigloar forte le catene e le gomene degli ormeggi. Le grandi vele trapezoidali, non più ammainate, sono scese ai piedi degli alberi, e si compiono in silenzio gli ultimi preparativi. Un marinaio porta le lunghe filze di spugne e di sugheri; un altro lancia giù nella coperta i canestri vuoti accatastati sulla riva; un terzo prende gli orci dell'acqua passatigli da una vecchiarella, di mano in mano che li toglie dal carrettino, e contando ad alta voce li va a vuotare giù a basso, nella botte legata a sinistra del boccaporto, mentre i "padroni" sollecitano con numerose ambasciate i rispettivi equipaggi e brontolano contro i ritardatari. Questi arrivano uno dopo l'altro, con i calzettoni bianchi di lana fino al ginocchio e i pesanti zoccoli di legno, e camminano adagio, dondolandosi sulle anche... Dal momento che per lasciar il porto bisogna aspettare la "colmata" o alta marea, a che servirebbe la fretta?

Giunta l'ora propizia, comincia la faticosa manovra e si salpa per la pesca. Sciolte le "cime" della riva, le barche scendono lentamente il canale, tirate da un marinaio che tiene il "poppese", mentre un altro regge il "provese" per regolar la velocità, e il "padrone" vigila con lo scandaglio. Tocca passare, alle volte, nello stretto spazio lasciato da altre barche ormeggiate più verso l'imboccatura, e si evitano gli urti a forza di mani, scostandosi quant'è possibile, o si attutiscono per mezzo del "ballòn" di corda intrecciata, calato fuori del bordo.

Verso la metà del canale, dove c'è un po' più di largo, quello di poppa gira velocemente la sua "resta" intorno a un palo; l'altro lascia andare il provese, e così la barca gira adagio adagio su se stessa e procede poi con la prua in avanti. Allora, passata la lanterna, si trova più fondo. Se c'è vento lì, s'issa subito la vela maestra; se no, si ricorre all'aiuto di lunghi remi uncinati, che si puntano contro la rena; e la barca scivola dolcemente in mare. - Buona sera! - grida qualcuno di quelli, che l'hanno seguita, guardandola allontanarsi. E il mare, per un breve tratto, si popola delle grandi vele rossicce, simili a gigantesche ali d'uccelli notturni che spariscono nell'ombra, prendendo silenziosamente il largo.

Mentre in coperta i paranchi lavorano docili sotto le mani esperte dei marinai, intenti a calar il timone e le scottine, e a "cacciar" le vele, secondo il vento, possiamo dare, se vi piace, un'occhiata a basso, nella stiva. Di qua e di là, dal boccaporto grande alla prora, penzolano gli otto "ranci" o letti: un quadrato di grossa tela cucita solidamente su due assicelle, attaccato al soffitto per mezzo di quattro corde; e, sopra, uno strapuntino e una coperta di straccio. Un lume a petrolio, acceso davanti a un'immagine attaccata all'albero di trinchetto, manda una luce fioca e instabile; mentre nel "focone", grosso dado di legno pieno di terra, posto tra la bietta e la prua, covano tra la cenere alcuni pezzi di quercia. A prua, il "trenta" o "paioletto", che serve insieme di ripostiglio per la legna e di letto per il mozzo, o "morea" a poppa, quello più ampio e più comodo riserbato al poppiere, che ha in custodia cime, spago, linguette, fanali e tant'altre cose, accumulate là, sotto il fondo mobile del suo giaciglio. Sulle casse di zavorra, dal boccaporto a poppa, nereggiano accatastate le reti, più spesse o più rade, secondo il luogo o il pesce a cui sono destinate. Qua e là, rotoli di corde, canestri, un'ancora di riserva, e il mazzo della "speranza", la resta enorme che può costare, da sola, fino a centoquaranta scudi, e si cala per ultima, quando il mare ha stroncato tutte le altre; e, se si stronca anche quella, allora addio.

La manovra in coperta, è compiuta: vi rimangono soltanto in due, uno al timone, uno a prora. Gli altri vanno a sdraiarsi sui "ranci" o nel "trenta", finché non giunga il loro turno di guardia o non sia tempo di far la "calata".

Le nostre paranze pescano in due modi, cioè isolatamente o a coppia. Nel primo caso, si servono di una rete detta "sfogliara", e, quando il vento ha forza, una sola barca può trascinarne anche due; ma è pesca molto lucrosa, ed esercitata, quasi esclusivamente, dalle minori e più malandate. Le altre, e sono le più, vanno sempre a coppia, e costituiscono quella che, nel linguaggio dei pescatori, si dice una "muta di barchetti", che, tutt'e due di conserva, trascinano la rete a "tartàna". Essa, legata con una resta all'albero di poppa per ognuna delle paranze, striscia sul fondo con una "calomba", che può discendere fino a novecento metri, secondo la diversa profondità e secondo i venti che spirano.

Fino a venti miglia a largo dalla nostra spiaggia si trovano bassifondi puliti, dove la tartana non corre rischio di sciuparsi, anche se ci viene lasciata molto tempo; mentre, oltre quella distanza, il terreno cambia e le calate si avvicendano di due ore in due ore, per non aver la rete piena di trombanti, galosse, tartufi, canestrelle, spugne ed altre "sporchezze", per usar il termine dei pescatori.

Il miglior pesce è quello che si prende nella zona delle venti miglia, ossia quando si pesca in bon; mentre la pesca oltre quel limite, ossia in spriglia, o, come si dice più comunemente, "foravìa" dà un prodotto meno pregiato, perché più duro e insipido. Le triglie di "foravìa" per esempio, sono più carnose, ma meno rosse e saporite; e così le sogliole, che sanno di melma; e i merluzzi, assai più grossi, ma meno bianchi, anzi scuricci e stoppacciosi. È il pesce destinato alle città dell'interno, dove certe sottigliezze e gradazioni di gusto non si avvertono; ed è quello che, specialmente d'inverno, procura i più grassi guadagni agli spedizionieri che ne forniscono i mercati.

Al momento della "calata", che si fa alternativamente, la paranza a cui tocca il turno si mette in panna, tenendo sul "capo di banda" la sua tartàna, per mezzo di due "màncoli" o schermi, e allorché l'altra paranza le passa vicino, le lancia uno "scandaglio", o corda di media grossezza, perché gli uomini della gemella ci assicurino un capo della resta, già fissata per l'altro capo al loro albero di poppa. Si ritira in un attimo lo scandaglio, si lega forte una "banda" della tartàna, già assicurata dall'altra "banda" con altra resta, e si cala la rete, che poi viene trascinata di conserva, finché non sia tempo di salpare. Allora le due compagne, tirando a sé la rispettiva resta, si avvicinano sempre più per abbordarsi completamente, e si mettono in panna, perché tutti gli uomini della muta, raccolta nella paranza che ha calato, possano, per mezzo di un paranco, finire d'imbarcar la rete, e sciolto il sacco (gugùll), se ne fa scivolar fuori il pesce, che si dibatte sulla coperta nelle vane contorsioni d'una lunga agonia. Se è giorno, o anche di notte se c'è la luna, negl'intervalli tra calata e calata si attende a custodir il pesce, sventrandolo, scegliendolo secondo la qualità e la grossezza e ponendolo nei panieri; altrimenti si torna a dormire, per risaltar giù dai "ranci" dondolanti, alla voce del compagno di guardia, che chiama a salpar di nuovo.

In tempo di pesca, quelli che restano "in bon", ossia verso il litorale nostro, nel raggio di venti miglia, possono far conto su otto ore complessive di riposo sopra le ventiquattro; mentre quelli che vanno "foravia", dovendo tirar su la rete ogni due ore, non ne dormono più di tre. Finita la pesca quando si parte per tornare a casa, allora il marinaio, dopo che ha mangiato e dopo rattoppato la rete, può, se è franco di guardia, dormire e riposare a suo bell'agio; purché, beninteso, non ci sia bisogno di manovrar in coperta, per via del tempo.

Nelle barche piccole la guardia si divide in due, e tocca mezza nottata per turno; su quelle grandi, in tre, e si avvicendano, ossia chi ha fatto la prima, la sera dopo fa la seconda e la terza sera l'ultima guardia.

A bordo, secondo la grandezza delle paranze, si va da un minimo di quattro o cinque persone a un massimo di dieci, compreso il mozzo (moréa) e un altro ragazzetto apprendista (murrachìn); e tutti ubbidiscono a un padrone (paròn), mentre, se pescano a coppia, la gemella dipende da un sottopadrone. Di rado essi sono anche i proprietari delle barche, che rappresentano sempre un bel capitale, secondo la portata. Per esempio, una muta di 15 tonnellate di registro costa circa undicimila lire; e due paranze bene attrezzate, per la pesca in bon e in spriglia, di 26 o 27 tonnellate di registro, valgono da nuove un trentamila lire. A volte più paroni, uniti in società, hanno le barche del loro; ma ordinariamente esse appartengono a qualche capitalista cittadino, arricchitosi con il commercio del pesce, e che continua a farsi, sugli utili, la parte del leone.

Nei conti, che si fanno ogni sette settimane, il proprietario della muta, sopra un totale di trenta parti, in cui si fraziona l'incasso, ne percepisce nove e mezzo; mentre due parti spettano al parone, due al pescivendolo (porznéver o porzionevole), una e mezza al sottoparone, una a ciascuno dei quattordici marinai e una divisa a metà tra i morea. Sicché, prendendo a base una parte di trenta scudi per le grandi e di quattordici delle piccole, che in sette settimane ricava un marinaio, si ha che il proprietario ne piglia dugentottantacinque o centoventitrè, ossia un terzo circa dell'incasso totale. È vero che sono a suo carico le spese di manutenzione e di riparazione, perché deve rinnovar ogni anno almeno un paio di reti e rifornire per circa due tonnellate di cordame nuovo, ed è pur vero che rischia tutto il capitale; ma i pescatori non rischiano forse qualche cosa di più, ossia la pelle stessa? Così, quando sono fuori, essi prendono dalla pescata il pesce di cui si nutrono e fanno parte del vitto di bordo il fuoco e i condimenti; ma questo e tutto il resto, ossia il dazio, che si paga in ragione di 35 centesimi di tonnellata di registro, l'affitto dei canestri, del magazzino, la spesa per i carretti, per il "palataro" e via discorrendo, si tolgono poi dal guadagno comune.

I pasti li prendono ordinariamente in coperta, e a basso solo allorché fa tempo cattivo. Si accende nel "focone" qualche buon pezzo di quercia, sul quale vien posta, infilata ad un ferro sostenuto da due aste laterali, una piccola stagnata; ed è così che si prepara il gustoso "brodetto", con pesce sapientemente assortito, mentre intorno alla fiamma si cuoce l'"arrostita", cioè dell'altro pesce, infilato in aguzzi spiedi di legno conficcati nella cenere calda. Pane e vino, ognuno lo porta da sé. Quando tutto è pronto, si sfila l'arrostita e si stende sulle "banchette" intorno al "focone", agli angoli del quale fumano quattro piatti, due di brodo e due di pesce. E i marinai, seduti sopra la zavorra, mangiano lentamente, prendendo con le mani il pesce e inzuppando nel brodo larghe fette di pane; e ogni tanto qualche scappellotto o qualche pedata arriva ai ragazzi, perché, contro ogni discrezione, invece di andar in fila, cercano di scegliere i bocconi migliori. Quando, poi, è bonaccia e non si può prender niente, o poco, allora si mangia il pane solo, oppure si fa qualche pancotto, o la zuppa, con pane bagnato nell'acqua e, sopra, qualche goccia di aceto.

Ma il rozzo nutrimento non rende meno vigorose le braccia né meno ampi i petti dei nostri pescatori, indurati nella diuturna lotta contro le collere tremende di quel mare che essi non temono, quantunque non rinunzi mai, ogni anno, al suo tributo di vittime. E mentre il borino fischia ed ulula con cento bocche tra le sartìe e il mare monta da ogni parte e spazza la coperta con valanghe di spuma, che gli ombrinali stentano a ricevere, essi scalzi, sudati, con la testa e il collo nel cappuccio d'incerato stretto forte sotto il mento, manovrano con la precisione d'automi, divenuti quasi un essere solo con quelle poche tavole, scricchiolanti e vibranti tra le braccia poderose che vorrebbero trascinarle giù giù, verso il fondo, come tante altre, in un freddo amplesso mortale; e la paranza, con i "conceri" e una "spiera" o due, che ne moderano l'abbrivo, ubbidisce docile al pugno d'acciaio che governa la rigola del timone e va e va, finché è in vista del porto.

Comincia allora una difficile manovra, perché l'imboccatura del canale è stretta, e le onde s'avventano elevandosi in altissimi sprazzi contro le palizzate dei moli, che vibrano nel cozzo tremendo. Dalla punta estrema, dove tutta la popolazione del porto si affolla ansiosa, il "palataro" butta lo scandaglio, che viene preso agilmente a volo da quelli della paranza e assicurato a prua; e subito tutti, grandi e piccoli, uomini e donne s'attaccano per tirare, in un mirabile slancio di solidarietà che li unisce nel pericolo, come in un'anima sola. Basta aver veduto una volta una simile scena, per conservarne il ricordo indimenticabile. E come restano profondi nel cuore gli urli e le invocazioni di quelle povere donne scapigliate, esaltate, che aspettano, aspettano e non vedono ancora i fratelli, i figli, i mariti tornare! Ad ogni vela che spunta, quei miseri occhi arrossati dal vento e arsi dal pulviscolo salso diffuso nell'aria non battono più, ed è nei petti un gran martellare, mentre la barca saltante sulle onde si accosta. Tra pochi minuti sapranno, tra pochi minuti l'incertezza non sarà più possibile, e per le une o per le altre anche quella speranza sarà irrimediabilmente svanita....

Dal novembre alla Pasqua, per i venti di tramontana che dominano sulla costa nostra, i "barchetti" maggiori si spingono a pescar in Quarnero e di sotto, frequentano particolarmente Pola, Porto Veruda, Unie, Porto Longo d'Unie, Porticciolo del Sansego, Cigale, Val dei Monaci e Lussinpiccolo, dove si ricoverano coi tempi cattivi, o per vendere il pesce, e dove i nostri hanno fiere e frequenti baruffe con i bruni croati. Ma il pesce, per lo più, lo caricano sulla lancia e lo mandano da noi. Due dell'equipaggio, a cui spetta l'ufficio di battellanti, fanno così la traversata dell'intiero Adriatico, anche con tempi pessimi, costretti spesso a star in mare fino a ventiquattr'ore; e non è raro il caso, che, avendo rovesciato da un colpo di vento o di mare il battello, ci rimangono aggrappati "alla bona di Dio", finché non giunge un soccorso. Così uno vi rimase a cavalcioni per più di venti ore; mentre il suo compagno, che, poveretto, poco tempo dopo si perse con un altro uomo e un altro battello, riuscì sfidando le onde a toccar terra, nuotando per quasi otto miglia col solo aiuto dell'alberello della lancia rovesciata. Per questa loro fatica i battellanti ricevono, in più dei marinai di bordo, venticinque soldi, e due chili di pesce per il brodetto, da mangiare a casa; oltre quello che riescono a racimolare, nascondendolo ordinariamente giù nella rimboccatura dei calzoni: il che, nel loro gergo, si chiama "far una mano di terzaroli".

Dopo Pasqua, le paranze maggiori smettono la pesca. Sono questi i mesi delle "bruciature" e, dal momento che manca il pesce, poiché pur conviene mangiare, si attende a caricar la breccia, che non manca mai, fornita com'è in gran copia dai fiumi. S'ingegnano ben loro a farla rotolar giù dai monti e a vomitarla nel mare, che poi, lisciata e assottigliata, la ributta sulla spiaggia. Due uomini in camicia riempiono a grosse palate le barelle, che altri uomini, camminando sul tavolone gettato come ponte tra la riva e la barca, ormeggiata di fianco, trasportano senza posa, e presto la coperta, solita a veder guizzare, quando si scioglie il sacco della tartana, i bei pesci dalle scaglie scintillanti, sparisce sotto il greve strato di ciottoli inerti. Occorre che il mare sia calmo e il vento propizio, perché il peso è tale, che i bordi scendono quasi a fior d'acqua; e così, costeggiando, le grosse paranze procedono lente, per andare a scaricar la breccia in qualche punto dove non ce n'è, come a Ravenna e a Magnavacca.

Altre, invece, vanno "in navigazione" e, se c'è abbondanza di frutta o di ortaglie, sono mele, sono pere, sono cavolfiori che ammucchiano nella stiva, per portarli in luoghi lontani, spesso fino a Pola e Trieste, di dove riportano legname, carbone, bitumi solidi, e, dalla Romagna, grossi carichi di cocomeri.

Intanto, da parte delle "sfogliare" e delle paranze più piccole, si continua la pesca; ma capitano spesso lunghe bonacce, per cui tocca restar inchiodati nel porto, e allora si ricorre a qualche altro mezzo. Molti si danno alla ricerca delle arselle (calcinèi) e delle concole (puràss), per cui bisogna andar terra terra, scovandole dalla rena, dove stanno confitte, con il pesante "ferro" dal lungo manico, terminante in una rete attaccata a una grossa intelaiatura di legno; altri preferiscono il "parangàlo", che consiste in una lunghissima fune fornita di centinaia di ami, tenuta a fondo con un peso ed un'ancora ai due capi; altri il "quadro", enorme rete a bilancia, piantata in cima ai moli e mossa da ruote giranti a forza di mani: ma è questa la stagione delle "tratte".

Nell'immensità azzurra e immobile le lance vanno spinte dai remi, sotto il sole che mette scintillii sull'acqua e arroventa la ghiaia del lido, dove i compagni aspettano che sia gettata la rete. Con i calzoni arrotolati fino sopra il ginocchio i pescatori, divisi in due gruppi, puntano le nude gambe abbronzate e muscolose tirando i capi della fune, che un ragazzetto avvolge di mano in mano ch'essi la lasciano, per attaccarsi più oltre con l'uncino di legno della loro corda passata ad armacollo: e così facendo, i due gruppi si accostano adagio adagio, per chiudere il cerchio della rete, tenuta a fondo per un lato dai piombi e galleggiante per i sugheri attaccati all'altro orlo. A poco a poco i capi emergono: i pescatori si raggruppano sulla spiaggia; qualcuno entra nell'acqua fino alle cosce, e tutti tirano in silenzio, scotendo la negra rete prima di posarla, finché è a terra. S'apre il sacco e si rovesciano in un paniere quelle poche dozzine di sardelle, di roscioli, di sgombri, che boccheggiano miseramente luccicando al sole con un sordo fruscìo di pinne e di code. Poi, ripulita la "tratta" dalle alghe e dalla massa gelatinosa delle meduse, viscide e tremolanti, si carica sulle spalle, si rimette a bordo e la lancia parte di nuovo.

Càpita, alle volte, che qualcuno, nel rimescolar la pescata, si fori inavvertitamente un dito con la spina velenosa di un ragno o di una scarpena; e allora è lesto a colarci sopra un po' di zolfo bollente inzuppato nell'olio, e, se questo non basta, corre a far bollire dell'acqua per ficcarci dentro la mano o il piede. Rimedio assai spiccio, che non è il solo adoperato dai pescatori, in simili accidenti.

Se, per esempio, si fanno un taglio, versano sulla ferita un po' di catrame bollente, o ci bruciano un cencio inzuppato d'olio; per il mal di pancia, dicono i vecchi essere indicatissimo mangiar una pannocchia arsa; e per la formicolosi (inpulin), usano ricorrere a pane masticato e inzuppato nell'aceto, perché dicono che l'"ubbriaca". Né mancano tra di essi credenze superstiziose e tracce di fantastiche leggende. Raccontano d'un caprone, che sarebbe stato visto dai vecchi, una volta, sotto il ponte di ferro, a metà del canale. Tre o quattro marinai l'avevano legato con uno scandaglio, e si divertivano a vederlo saltare; finché la bestia si stufa, comincia a dar indietro e tira, tira, tanto che quei burloni, per non farsela scappare, pensano di assicurar lo scandaglio a un palo. Ma sì! con uno sgambetto il diabolico caprone stronca il palo e se li trascina via, tra il fumo e il puzzo dello zolfo. Altri, poi, parlano d'uno strano "Caronte" e dicono che con le piove, di nottetempo, quando l'acqua va in ardore e su per gli alberi le anime appaiono come tanti lumicini, che portano disgrazia (fuochi di Sant'Elmo), quell'ammazzato Caronte, capo di gente cattiva, ladri di mare, naufragati da chi sa quanti secoli, si prende il matto gusto di presentarsi con la sua barca, per impaurire i poveri marinai, e a due palmi dalla prora, quando già gli uomini della paranza, con le mani nei capelli, credono d'essere inevitabilmente investiti e aspettano il cozzo tremendo, Caronte e la sua barca spariscono via nel buio, tra la burrasca....

Errerebbe però assai, chi da queste fantasie, trasformazioni di chi sa quali antiche leggende, deducesse che i nostri pescatori siano sciocchi e di poco acume; che anzi, nella stessa loro rozzezza, sono svegli ed aperti, e quantunque, massime i più vecchi e le donne, prestino ancora una fede quasi cieca alle "fatture", al malocchio e a simili corbellerie, i più giovani ne ridono come me e come voi e non sono superstiziosi. Franchi, cordiali, affettuosi, riconoscenti, sono assai al disopra dei campagnoli e di molti tra gli stessi artieri cittadini; come li superano, di solito, in robustezza e in bellezza. E conducono anche, in genere una vita più sobria, costretti alle lunghe assenze da terra, in mezzo al mare purificatore, nel rude esercizio di tutt'i muscoli del corpo temperato alle fatiche e ai pericoli; quantunque, nelle soste in porto, specialmente in periodo di conti, amino troppo l'osteria e prendano spesso delle sbornie solenni.

Essi si considerano e sono in realtà come completamente separati dai cittadini ed è difficile che si familiarizzano con chi non è nato, come loro, nelle casette allineate lungo il porto, all'ombra degli ailanti frondosi che ne ornano le sponde. Ma se riuscite a guadagnarne la simpatia e la fiducia, li sentirete con meraviglia, essi, per natura così poco ciarlieri, narrare di ciò che hanno visto nella loro vita errabonda, con frasi pittoresche in un dialetto profondamente diverso dal vostro, e dire, come se fosse cosa di ieri, della infausta giornata di Lissa, dove più d'uno s'è trovato nella sua ormai lontana giovinezza. Non vi consiglierei, però, se vi preme di restar amici, di ammirar troppo le loro donne, fiorenti d'una bellezza tutta loro particolare, che ha in sé qualche cosa di selvaggio e di forte: le ardite "portolotte", che vi fissano negli occhi finché non vi decidete ad abbassarli, e vi lanciano sul viso la provocazione d'una risata o d'un frizzo, che non incoraggiano certo ad esser troppo intraprendenti.

Ognuno di quei piccoli porti-canali, di cui è ricca specialmente la parte centrale della nostra costa adriatica, è come un piccolo mondo a sé, con le due file di case, ciascuna delle quali ha sul didietro il suo orticello, recinto d'una fratta di tamerici o di sambuco, che mette un po' di verde in mezzo a tanto azzurro, e ciascuna ha la pietra fuori dall'uscio, dove le donne si seggono volentieri a far le reti o a pettinare e allattare i piccini; con la sua chiesetta tappezzata d'ingenue tavole votive, con le sue bottegucce che bastano ai bisogni dei pescatori, con il piccolo cantiere, dove una famiglia di calafati ripara o costruisce delle paranze, grosse e piccole, la cui forma si perpetua così in un tipo caratteristico, divenuto tradizionale. Un po' tozze e quasi rigonfie, con due alberi e due vele, oltre il fiocco o "polacchina", sono però resistentissime al mare e al vento e solide a tutta prova. Fino al Tronto, assomigliano molto ai bragozzi veneti, e le vele trapezoidali, dipinte con un miscuglio di terra rossa e gialla e solcate da larghe striscie bianche e nere, hanno per lo più monogrammi e simboli religiosi. Dal Tronto in giù, invece, le paranze sono a un albero, con una sola grande vela triangolare, la vela latina; e, in mancanza di porti-canali, vengono alzate a forza di braccia e di argani sulla rena stessa del lido, facendo scorrere la carena, bassa e piatta, su tronchi unti di sego.

Dopo quasi tre millenni, non par di assistere - osserva argutamente Adolfo De Karolis - alla rievocazione della scena omerica, in cui il politropo Ulisse, nell'isola di Calipso, vara "con possenti leve supposte" la nave da lui costruita?

Da: "Pescatori dell'Adriatico", GRIMALDI, 1907


Dettaglio scheda
  • Data di redazione: 01.01.1907
    Ultima modifica: 24.02.2005

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