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Cagli: Chiesa di Sant'Angelo Minore - Noli me tangere


Quest'opera, firmata "Thimothei De Vitae Urbinat Opus" e datata 1512-1513, è il più importante lavoro di Timoteo Viti (1469 – 1523), che fortunatamente si è salvata dal saccheggio napoleonico.

Il dipinto presenta un cromatismo intenso e ricco di contrasti, ed in esso il pittore realizza una sorta di grande trittico, il cui centro è quello che si direbbe un insignificante vasetto d'unguenti mostrato dalla Maddalena e che tuttavia ha un grande valore simbolico poiché il suo mancato utilizzo allude alla resurrezione del Cristo.
La scena di Gesù quando dice alla Maddalena "... non mi trattenere perché non sono ancora salito al padre..." è come racchiusa entro un basso recinto; più in alto è il Golgota con le tre croci ormai prive dei corpi dei giustiziati.
Dietro il capo di Cristo risorto si nota, minuziosamente descritto, un paesaggio tipico del Quattrocento che allude alla Gerusalemme Celeste.
Sulla destra è poi Sant'Antonio abate, mentre dall'altra parte compare San Michele arcangelo elegantemente agghindato che schiaccia a terra Lucifero, il quale, a sua volta, volge lo sguardo atterrito verso il visitatore.
L'angelo con la destra brandisce uno stocco e con la sinistra regge la bilancia del giudizio.

Giulietta Mariotti

Uno sguardo panoramico sulla vita di Timoteo Viti può farci meglio capire le peculiarità che caratterizzano il linguaggio artistico del maestro.
Nacque ad Urbino nel 1469 e qui morì nel 1523.
Così è ricordato dal Vasari: “gagliardo disegnatore, ma molto più dolce e vago coloritore, in tanto che non potrebbero essere le sue opere più pulitamente né con più diligenza lavorate. Fu allegro uomo e di natura gioconda e festevole, destro della persona, e nei motti e ragionamenti arguto e acetissimo. Si dilettò sonare d’ogni sorte strumento, ma particolarmente di lira, in su la quale cantava all’improvviso con grazia straordinaria”.
La ricostruzione della formazione artistica del pittore sollecita cruciali problemi per quanto riguarda i rapporti intrattenuti con il più giovane Raffaello.
Nacque da Bartolomeo della Vite e da Calliope, figlia del celebre maestro Antonio Alberti da Ferrara, che a Cagli lasciò alcune opere nella chiesa di San Francesco.
Nel 1490 il giovane artista lasciò Urbino trasferendosi a Bologna nella bottega di Giovanni Francia, dove apprese “una tecnica espressiva delicata, come è quella inerente alla oreficeria, alla miniatura, alla decorazione delle vetrate, bensì anche il gusto per l’elegante decorazione, l’aperto pittoricismo, la preziosità del materiale”- (A. Mazzacchera, Il Forestiere in Cagli, 1997).
Nel 1495, all’età di 26 anni, tornò ad Urbino dove a detta del Vasari “ si fermò per alcuni mesi dando bonissimo saggio del saper suo; perciò che fece la prima tavola della Madonna nel Duomo, dentrovi, oltre la Vergine, San Crescenzio e San Vitale, all’altare di Santa Croce, dove è un Angeletto sedente in terra che suona la viola [...] Per queste opere et alcune altre, delle quali non accade far menzione, spargendosi la fama et il nome di Timoteo, egli fu da Raffaello con molta istanza chiamato a Roma.” (G. Vasari, Vite de' più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a' tempi nostri, 1568).
La sua fama, secondo C. Arseni, deriva dal fatto che Timoteo “portava tra gli artisti urbinati quella limpida fresca vena che gli era derivata dal Francia, portava un soffio di sorriso a rischiarare i volti delle sue figure femminili, portava una incomparabile nota di soavità, che contrastava con quel triste di universale dolore, che Giovanni Santi aveva soffuso nelle sue figure in linee talvolta dure, in accenti spesso muti e spezzati”.
E sulla scia di questa fama dell’artista che, secondo il Vasari, Timoteo Viti fu chiamato a Roma da Raffaello, con il quale lavorò nella chiesa della Pace, realizzando le figure delle Sibille e nella scuola di Santa Caterina da Siena.
Tornò ad Urbino dove realizzò le sue più importanti opere come la decorazione, eseguita insieme a Gerolamo Genga, della cappella del Duomo dedicata ai Santi Martino e Tommaso, e la preziosa pala cagliese della chiesa di Sant’Angelo Minore.

La pala cagliese rappresenta la scena evangelica tratta da Giovanni 20,11-18, conosciuta con la celebre locuzione latina “Noli me tangere”, pronunciata da Gesù a Maria Maddalena subito dopo la resurrezione. L’artista ambienta il gruppo principale della Maddalena e del Cristo entro le rovine di una struttura architettonica, un arco precisamente, il quale separa la scena narrativa dalle due figure devozionali dell’Arcangelo Michele e Sant’Antonio Abate.
La bellissima Maddalena, che protende la mano verso il Cristo Risorto, è rappresentata nell’attimo di maggiore incredulità, perplessità, tanto che non sa se la figura davanti a lei sia una visione frutto della sua immaginazione. Quindi prova a toccarlo, per verificare l’effettiva tangibilità. Ma Cristo fermamente e gentilmente respinge la donna e le dice: “Lasciami, perché io non sono ancora tornato al Padre”.
L’amore umano ormai non gli appartiene più perché Egli vive in una comunione di amore divino.
La mano destra della Maddalena indica, con sofisticata grazia, il vasetto d’unguenti, il quale ha un valore simbolico poiché il suo mancato utilizzo allude alla Resurrezione del Cristo.
Il primo piano è occupato dalle figure, prestanti ed eleganti, di due Santi: San Michele Arcangelo e Sant’Antonio Abate, i quali s’intromettono nella scena centrale con atteggiamento affabile.
Sulla sinistra della tavola, San Michele Arcangelo mostra un chiaro influsso raffaellesco.
Il suo nome in ebraico suona Mi - ka - El e significa: Chi è come Dio.
Nel Nuovo Testamento S. Michele Arcangelo è presentato come avversario del demonio, vincitore dell'ultima battaglia contro Satana e i suoi sostenitori.
Troviamo la descrizione della battaglia e della sua vittoria nel capitolo 12° del libro dell'Apocalisse: Scoppiò poi una guerra nel cielo: da una parte Michele e i suoi angeli, dall’altra il drago e i suoi angeli. Ma questi furono sconfitti, e non ci fu più posto per loro nel cielo, e il drago fu scaraventato fuori. Il grande drago, cioè il serpente antico, che si chiama Diavolo o Satana, ed è il seduttore del mondo, fu gettato sulla terra e anche i suoi angeli furono gettati giù. L’immagine di Michele Arcangelo, quindi, sia per il culto che per l’iconografia, dipende dai passi dell’Apocalisse.
Come possiamo notare, infatti, il Santo viene rappresentato alato in armatura, con la spada con cui sconfigge il demonio. Con la grazia angelica che l’artista gli conferisce, egli calpesta con il piede l’orrenda forza del male che invano cerca di ribellarsi sollevando il roncone contro l’Angelo di Dio ma, disperato, rivolge lo sguardo verso il pellegrino.
A destra Sant’Antonio Abate ha lo sguardo rivolto verso gli spettatori; è uno sguardo serio, profondo, come a ricordare all’uomo la difficile strada che deve percorrere per raggiungere la salvezza dell’anima.
Egli, eremita egiziano vissuto nel IV secolo, è rappresentato secondo l’iconografia classica: avanti negli anni, saio antoniano, bastone da pellegrino che termina con una croce a forma di tau e in compagnia di un maialino, che si narra lo seguisse ovunque. Secondo una tradizione popolare, il diavolo, dopo essere apparso più volte al Santo sotto diverse sembianze, fu sconfitto e condannato a seguire Antonio sotto forma di maiale. La credenza punta sull’eguaglianza maiale= demonio in quanto personificazione della lussuria.
L’artista vuole quindi mettere in evidenza la sconfitta del male, la possibilità di vincere la “Bestia”, e per sottolineare questo concetto inserisce, proprio al centro della composizione, il vasetto d’unguenti simbolo della resurrezione e quindi della vittoria sul male.
La presenza dell’edera, inserita nelle rovine della struttura architettonica come pianta sempre verde, nell’iconografia cristiana assurge a emblema dell’immortalità dell’anima dopo la morte e allude all’immagine di Cristo poiché, come l’edera è provvista di germogli rigogliosi, così Gesù appare umile come uomo ma è rigoglioso nella sua incorruttibile essenza divina.
Gli alberi, sparsi nel paesaggio, sono rigogliosi, verdi, fioriti e stanno ad indicare la redenzione e rinascita (in questo caso rimanda alla resurrezione di Cristo) testimoniata dalla presenza del sepolcro di Gesù aperto con uno dei due angeli apparsi alla Maddalena e dal Golgota con le tre croci prive dei corpi dei giustiziati.
Al di là di rocciose colline si apre un meraviglioso paesaggio verdeggiante, dove trovano collocazione dei personaggi anonimi, come le donne velate in pellegrinaggio verso il sepolcro, o i viandanti che percorrono silenziosamente la strada sullo sfondo. Ed in questo paesaggio s’inserisce una tipica città della fine del Quattrocento con le alte torri, campanili e case. L’artista ha voluto rappresentare “la città celeste” ossia la “Gerusalemme Celeste”, simbolo del regno messianico, concepita con raffinate proporzioni e armonica fusione tra spazio edificato e ambiente naturale circostante.

L’opera è firmata “TIMOTHEI DE VITE URBINAT. OPUS”. La Cuppini Sassi ritiene che la pala sia stata eseguita tra il 1512-13, mentre la tradizione la fa risalire agli anni 1518-19.

Valentina Corazzi


Dettaglio scheda
  • Data di redazione: 31.03.2001
    Ultima modifica: 01.11.2011

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