Carnevale, feste, tradizioni e lavoroCarnevale, feste, tradizioni e lavoro

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Velieri fanesi nel 1917

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Strutture per la commercializzazione, la conservazione...

Ricostruzione e sviluppo dell'attività peschereccia nel Porto di Fano dal 1944


Epiche e quasi incredibili per chi non le ha vissute le vicende che hanno consentito alla marineria di Fano di risorgere dalla rovine della guerra. Delle centinaia di barche da pesca e di una “dozzina'" di quelle da traffico (motovelieri) di proprietà e con equipaggi locali, facenti base operativa nel porto di Fano, rimanevano solo quelle piccole autoaffondate delle quali emergevano gli alberi; uno spettacolo desolante. Il naviglio più grande era stato militarizzato o sequestrato dai tedeschi e andato disperso in operazioni di guerra.

Pochi giorni dopo l'arrivo degli alleati i marinai, ancora sfollati, sono tornati al porto e alle loro case, tutto disastrato dai bombardamenti e dalle mine, cercando di salvare il salvabile con il concorso delle loro donne. I più giovani con ogni mezzo, ma soprattutto con vecchie biciclette, sono partiti alla disperata ricerca, lungo tutte le coste italiane, ove la guerra era già passata, delle loro barche militarizzate sperando di trovarle galleggianti o affondate o, quanto meno di avere notizie sulla loro fine. Ma pochi furono i fortunati; i più, sfiniti e avviliti, tornarono a mani vuote. A Fano invece, senza perder tempo, con mezzi primordiali più impensati ma con fratellanza e solidarietà indimenticabile che coinvolgeva uomini e donne, ignorando i pregressi antagonismi fra i marinai della pesca e quelli del traffico, fra la zona di sottovento (zona plebea a sud del porto canale) e quella di soravento (rione nobile a nord dello stesso) iniziavano a galleggiare i primi barchetti da pesca autoaffondati per salvarli da ulteriori catture dei tedeschi. Le donne in particolare con sacrifici notevoli e carenza di materiali erano immediatamente tornate al tradizionale lavoro delle confezioni delle reti da pesca dall'alba al tramonto, in sostituzione di quelle perdute o marcite durante gli anni di guerra.

La Cooperativa pescatori, dapprima in mano ad un comitato di emergenza quindi al primo consiglio di amministrazione che aveva ricevuto in consegna alcuni documenti amministrativi da parte degli ex dirigenti del periodo fascista, ma senza denaro e con la sede occupata dagli alleati, collaborò per quanto possibile alle tante esigenze del momento, cercando e trasportando le poche attrezzature reperibili, intervenendo sulle autorità alleate che governavano la città per ottenere i permessi e le autorizzazioni necessarie, avallando e scontando presso la Cassa di Risparmio di Fano centinaia e centinaia di cambiali da 1.000 lire cadauna, che in quel difficile momento servivano ai marinai per una stentata sopravvivenza.

Trovato ed acquistato un vecchio camion si adoperò, con spericolate azioni di contrabbando nella bassa ferrarese appena liberata, di rimediare la canapa, materiale strategico che gli alleati avevano vincolato a fini militari, necessaria invece per il confezionamento degli spaghi e reti da pesca. Tale canapa veniva poi fatta lavorare ai funai di Fano, Orciano e Jesi, per la trasformazione in spaghi e corde coi quali purtroppo la conflittualità non ebbe mai fine. Tuttavia queste operazioni della Cooperativa e successivamente anche di altre ditte private consentirono di fare fronte alle esigenze.

Quando già alcune barche ristrutturate ed attrezzate alla buona erano disponibili a riprendere il mare sorse il problema di reperire il carburante necessario. Le quote contingentate assegnate dagli alleati erano del tutto insufficienti. Le ripartizioni: prima a livello compartimentale fra i diversi porti di competanza e poi in ogni porto sulla base dei pescherecci in attività e per ognuno di questi sulla potenza dei rispettivi motori, fu un vero dramma. La Cooperativa a cui era stato affidato il servizio, non accontentava nessuno perché le quantità insufficienti consentivano la pesca per non più di due o tre giorni la settimana. Gli addetti al servizio della Cooperativa continuamente insultati, tacciati di favoritismi, più volte minacciati e talvolta inseguiti dai pescatori con coltelli alla mano ed in altri casi arrestati dalla finanza perché gli stessi marinai, impazienti ed esagitati, avevano sfondato la porta del deposito doganale in loro assenza. Di fatto non erano le irregolarità del personale addetto ma l'astuzia di alcune barche che riuscivano a pescare di più, acquistando gasolio di contrabbando da personaggi che lo rubavano dalle pipe-line alleate, che scoperte correvano lungo la costa o in connivenza con gli stessi militari alleati da automezzi o trasbordandolo da mezzi militari navali.

Ottenuti con non poche difficoltà e prescrizioni: ore diurne e platee raccostate, le prime autorizzazioni di pesca, ci si accorse subito dagli sbarchi salutati con entusiasmo da tutta la marineria scesa fra le disastrate banchine del porto, che il pescato di tutte le specie, indisturbato nei lunghi anni della guerra, era abbondantissimo e naturalmente, da tanto tempo dimenticato e tanto desiderato dalla cittadinanza doveva essere venduto. Altro problema: dove, a chi e in che modo venderlo. La struttura del mercato era occupata dagli alleati e la Cooperativa si offrì di assumerne l'incarico. A tal fine affittò un locale già adibito a forno e, attrezzandolo al meglio, iniziò le vendite non con il tradizionale sistema dell'asta al miglior offerente, ma praticando dei prezzi fissi per ogni specie che venivano stabiliti di giorno in giorno dai responsabili della Cooperativa. Questo sistema di vendita fu quasi subito contestato, perché, se da un lato agevolava il consumo locale, dall’altro consentiva ai tanti commercianti forestieri, che giungevano anche dalla Toscana, di conseguire grossi guadagni a scapito dei pescatori che all'asta, in concorrenza, avrebbero realizzato molto di più. Pur con prezzi contenuti, le notevoli quantità pescate, consentivano agli ancor pochi fortunati che disponevano della barca di conseguire, unitamente agli equipaggi, ottimi profitti. Il denaro riprese così a circolare per pochi e i più, disoccupati, iniziarono a protestare, creando così i primi episodi dirompenti l’ammirevole solidarietà pregressa.

Frattanto rientravano alcune barche ritrovate lungo le coste affondate per fatti di guerra e, ristrutturate, iniziarono a pescare. Altri armatori che invece avevano recuperato il solo motore, aiutati dalle banche che, visto il buon andamento del settore, avevano nel frattempo concesso crediti agevolati, fecero costruire lo scafo nuovo nei cantieri di Fano che lavoravano a pieno regime. Così la flottiglia in continuo aumento intensificava la produzione favorita anche dal fatto che le autorità concedevano sempre maggiori spazi operativi e il gasolio non era più un problema. Non frenarono l'entusiasmo operativo i tanti pericoli insiti nel mare: le mine galleggianti fecero le loro vittime, le bombe a gas d'iprite lasciarono il segno sui corpi di molti marinai dopo mesi di atroci sofferenze, i relitti di ogni genere impigliavano, facendole perdere, tantissime reti da pesca.

Non soddisfatti dei pur ottimi risultati ottenuti pescando nelle acque prospicenti il versante della costa italiana, armatori ed equipaggi, con barche ancora modeste e poche attrezzature, tornarono a pescare con reti a strascico nelle tradizionali platee a ridosso delle coste jugoslave. Dimenticavano però che l'Italia aveva perduto la guerra, che le coste istriane e dalmate non erano più italiane e che la Jugoslavia aveva molto da recriminare nei confronti dell'Italia. Conseguenza: una serie infinita di catture da parte delle vedette della polizia jugoslava, processi, imprigionamento di equipaggi e anche confische definitive di motopescherecci nostrani. Memorabili i tentativi di fuga per evitare le catture, le sparatorie da parte delle motovedette, la disperazione di quanti per giorni e settimane non avevano notizie sulla sorte dei loro cari e poi le scorribande a Trieste col treno che non arrivava mai o con ruderi di auto per acquistare dinari (moneta jugoslava) di contrabbando, per pagare le pesanti ammende e riavere le barche. Nella zona di Trieste, rivendicata dagli italiani e dalla Jugoslavia, ma ancora in mano agli alleati il dinaro costava un decimo rispetto al cambio ufficiale jugoslavo.

Dal 1950 al 1957, una decina di motopescherecci, i più grandi e con maggiore potenza del motore, timorosi e danneggiati più volte dalla conflittualità sul versante jugoslavo, sbarcarono le reti da pesca e si dedicarono, dotandosi di una particolare attrezzatura (ramponi) e spostandosi in varie località delle coste italiane, al recupero di munizioni e materiale bellico vario affondato che poi consegnavano, ben pagati, a ditte specializzate. E’ stato un lavoro di grande rischio, molti rimasero feriti ed altri permanentemente invalidi.

Pur fra tante difficoltà l'attività peschereccia progrediva, le barche sempre più grandi e moderne aumentavano. I giovani sempre più numerosi chiedevano l'imbarco perché nelle attività a terra, ammesso che si trovasse un posto, il guadagno del dipendente risultava appena un terzo rispetto a quello del semplice marinaio alla pesca.

In questo contesto, rafforzatasi finanziariamente, la Cooperativa fra Marinai e Pescatori acquistò e ammodernò, aumentandone la produzione, una fabbrica di ghiaccio indispensabile per la conservazione del pesce a bordo, costruì e gestì un impianto per la tinteggiatura delle reti da pesca necessaria per la loro conservazione, ancora costruite in canapa, realizzò il primo deposito carburanti per lo stoccaggio e distribuzione del gasolio, il magazzino per gli olii lubrificanti, un capannone per il montaggio e la riparazione delle reti da pesca al riparo delle intemperie, finora svolto con grandi disagi lungo le disastrate banchine e costruì una serie di locali entro i quali i singoli motopescherecci riponevano le diverse attrezzature pronte all'imbarco per ogni emergenza. Attivò alcuni servizi gratuiti ai soci e alle loro famiglie fra i quali un ambulatorio giornaliero con relativo medico, all'interno della sua sede sociale, dotandolo poi di attrezzature mediche e medicinali vari, ricevuti in dono dalle autorità alleate. Dopo una lunga trafila, ricevutane l'autorizzazione dalle autorità della marina militare italiana, installò e per lungo tempo fece funzionare un nautofono (adattando il vecchio segnale di allarme antiaereo già installato sul campanile di piazza XX Settembre e ritrovato fra le macerie dello stesso demolito dai tedeschi in ritirata). Fu di grande sollievo per il rientro in porto durante i giorni di nebbia.

La Cooperativa fu promotrice di memorabili dimostrazioni a Roma dove centinaia di marinai, giunti su camion scoperti con un viaggio avventuroso per le condizioni disastrate delle strade e del mezzo di trasporto, sollecitarono i lavori di riparazione al porto di Fano, rovinato dalla guerra e non più idoneo per la carenza dei bacini a contenere la flottiglia peschereccia in continuo aumento.

Notevoli furono le iniziative che la stessa cooperativa organizzò a scopo ricreativo: scampagnate con l'adesione di tutta la marineria all'insegna e sotto il garrire della bandiera sociale, le tante serate di balli sociali con orchestra, il rilancio con una nuova immagine della tradizionale '"festa del mare"' che per molti anni richiamò folle di cittadini e di turisti, partecipazione con le scuole rionali del porto alla costruzione di carri allegorici durante il carnevale e tante altre iniziative.

Molto merito si deve alla cooperativa se all'università di Bologna, nelle difficoltà dell'immediato dopoguerra, fu possibile riaprire il Laboratorio di Biologia Marina e Pesca che grazie, al prof. Andrea Scaccini fondatore e primo direttore, è oggi con tutti i suoi progressi e la nuova splendida sede, ma soprattutto con le sue importanti ricerche e pubblicazioni, conosciuto in tutto il mondo.

Grande riconoscenza proviene ancora oggi da importanti personalità israeliane per il sostegno dato loro dalla Cooperativa, quando a Fano una comunità di ebrei profughi da molti paesi, sprovvisti inizialmente di ogni mezzo, sostarono alcuni anni per istruirsi sulla pesca e sulla cantieristica, costruendo poi alcune barche, che marinai fanesi, forzando gli sbarramenti inglesi avversi all'istituzione di quello stato, riuscirono a trasferire nei porti israeliani.

Memorabile la competizione fra i comandanti dei motopescherecci che operavano sul versante jugoslavo per assicurarsi il ''merito" del miglior guadagno realizzato alla fine del "conto". Era detto "conto" un periodo di pesca determinato, alla fine del quale le barche si fermavano per definire il guadagno dell'equipaggio compensato alla "parte" e la contabilità fra comproprietari del motopeschereccio detti “caratisti". I periodi denominati "conti" erano sette: di carnevale, di Pasqua, di pasquarosa, della fiera di Senigallia, delle bruciature, dei Santi e di Natale. In quei tempi si pescava ininterrottamente dal lunedì al sabato, giorno e notte e da novembre ad aprile anche nei festivi. Si calavano e salpavano le reti ogni due ore mentre l'intervallo era appena sufficiente per la cernita del pesce, ci si dimenticava dei pasti e il dormire fra una cala e l'altra era di pochi minuti a turni. Si pescava con ogni tempo e quando il mare proprio non lo consentiva si trovava rifugio negli anfratti della costa jugoslava, talvolta per molti giorni, sorvegliati a vista dalla locale polizia e ancora privi di qualsiasi mezzo di comunicazione lasciavano per lunghi periodi senza notizie i preoccupati famigliari.

Di grande aiuto per la specializzazione della gente del mare: motoristi, capi barca e padroni marittimi è risultata l'istituzione proprio a Fano della "Scuola Marittima" a cura dell'Ente Nazionale per l'Educazione Marinara ENEM che in tanti anni ha patentato centinaia di marittimi locali o provenienti da altre marinerie, richiesti ed apprezzati ovunque imbarcati alla navigazione o alla pesca.

Nel 1950 fu installata a Fano a cura di una società privata una stazione ricetrasmittente che noleggiava apparecchi idonei a tale servizio ai singoli motopescherecci. Tutti i più grandi motopescherecci se ne dotarono risultando di grande utilità sia per la sicurezza che per la specifica attività. Nello stesso anno apparvero le prime reti da pesca in nailon immediatamente diffusesi in tutto il mondo della pesca, che conseguì con queste uno dei maggiori progressi della sua lunga storia.

Nel 1958 apparve su di una nuova barca da pesca fanese il primo radar. Inizialmente ritenuto uno strumento superfluo, venne successivamente installato da quasi tutti i motopescherecci per la grande utilità riscontrata nell'evitare collisioni navigando con la nebbia, facilitare l'entrata in porto e in particolare per quanti continuavano a pescare verso la costa jugoslava, per stabilire con la massima precisione le distanze e il conseguente rispetto delle acque territoriali di quella nazione interdetta ai pescatori italiani, anche se poi di fatto, a torto o a ragione, gli sconfinamenti e le catture con relative conseguenze, continuarono. Negli stessi anni i motopescherecci si dotarono degli ecometri o radio-scandagli, utilissimi per misurare la profondità dell'acqua e per individuare i banchi di pesce. Anche i radiotelefoni, scomparsa la prima società che li noleggiava, vennero acquistati in proprio e gestiti attraverso le stazioni costiere dello Stato.

Migliorati i rapporti politici con la Jugoslavia, per alcuni anni e per l'esattezza fino al 1982, ne trasse beneficio anche la pesca, riuscendo l'Italia a stabilire accordi con quella nazione mediante i quali era consentito per un certo periodo e per un determinato numero di motopescherecci pescare in alcune zone delle acque territoriali jugoslave. A tal fine lo Stato corrispondeva alla Jugoslavia notevoli somme che se anche molto superiori ai benefici economici conseguiti dai pescatori, sono risultati utili per il miglioramento dei rapporti e delle collaborazioni operative fra le due marinerie e fra i rispettivi istituti di ricerca scientifica.

Dal 1982, non trovando più intese per proseguire tali accordi e riacutizzandosi il problema dei fermi, dei processi, del pagamento di elevate pene pecuniarie e di qualche confisca della nave per i recidivi, si tentarono alternative alla rischiosa pesca sul versante jugoslavo. Memori di un pregresso fallimento di due barche attrezzate per la pesca con fonti luminose, si tentò nuovamente la pesca sulle specie massive, alici e sardine, con reti volanti trainate a coppia. Inizialmente fu un successo, vi aderirono sei coppie: 12 motopescherecci e la Cooperativa, d'intesa con le amministrazioni locali e quella della Provincia di Pesaro e Urbino in particolare, cercò di favorirne la commercializzazione mediante una vasta campagna promozionale durata alcuni anni e svolta, con molteplici iniziative, su quasi tutte le regioni italiane. Ma sorsero difficoltà nella commercializzazione, per la concorrenza di marinerie vicine più esperte in questo settore che richiamavano commercianti ed esportatori avendo disponibile ogni giorno ingenti quantità di pesce, cosa questa non possibile a Fano per l'esiguo numero di barche che praticavano tal genere di pesca e anche perché proprio in quel periodo diminuirono notevolmente gli stoks in Adriatico di tali specie ittiche.

La Cooperativa frattanto, rimasta sola a distribuire il carburante e lubrificante ai motopescherecci, essendosi definitivamente ritirato il concorrente privato, con notevole impegno finanziario realizzava un proprio funzionale e capiente deposito per il gasolio che collegava con una lunga tubatura tutte le banchine del porto sulle quali, opportunamente collocati, moderni distributori rifornivano comodamente i motopescherecci.

Ma forse gli anni migliori per la pesca stavano per finire, la pesca a strascico in altura, con tutti i suoi problemi e l'impegno fisico che richiedeva gli equipaggi ma soprattutto non più remunerativa come in passato, non godeva più della preferenza dei giovani che invece andavano cercando orari più conformi a quelli praticati nelle attività a terra. La pesca del pesce azzurro non riuscì ad imporsi, quella costiera ravvicinata e quella locale entro le sei miglia, fisicamente meno impegnative, non soddisfacevano per i modesti guadagni. Conseguenze, chi ne aveva la possibilità si allontanava dal mare, si notavano le, prime avvisaglie di carenze, prima di personale specializzato poi anche di quello di coperta. Iniziò un graduale trasferimento per vendita di grossi motopescherecci e quelli rimasti stentando a trovare equipaggi ricorsero all’imbarco di numerosi marinai provenienti da altri paesi in particolare marocchini, tunisini e albanesi.

Mentre i motopescherecci che operavano la pesca entro le 20 miglia (pesca costiera) vedevano ridurre la propria redditività e per quanto possibile venduti, sia avviava a Fano il rilancio con notevole successo della pesca delle vongole, attività che in pochi anni vide accrescere il naviglio specializzato di oltre quaranta unità, richiamando a sé, visti i buoni profitti, armatori e pescatori più qualificati, che sottratti alla pesca tradizionale la ridussero in ancor più gravi difficoltà.

Diminuendo per un insieme di circostanze la redditività delle vongolare, negli ultimi anni si tentò, e successivamente si espanse, la piccola pesca locale con reti da posta, parangalli, cestelli per lumachini e nasse, iniziative ancora in corso alle quali recentemente si affianca il tentativo, molto costoso per le strutture che richiede, della pesca del tonno.

Siamo giunti ai giorni nostri e l'aspetto che più preoccupa è quello che a i giovani il settore della pesca marittima interessa sempre meno.

Da "Fanos, la Coomarpesca nella marineria fanese", 1998


Dettaglio scheda
  • Data di redazione: 26.02.2005
    Ultima modifica: 04.03.2005

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