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Gabriele Ghiandoni

Giulio Grimaldi, Brod e àcin


Venne descritto come un giovane schietto e nello stesso tempo timido e gentile; noncurante, affabile, ma con tutte le ribellioni del bohèmien. Un carattere complesso dunque, che sembra lo specchio e il presupposto della sua produzione culturale. Erudito fine, e robusto narratore popolare; poeta sentimentale, triste, e – in dialetto – poeta drammatico. Giulio Grimaldi è nato a Fano l’8 gennaio 1873; avviato agli studi ecclesiastici, cambiò idea abbastanza presto. Frequentò poi il liceo fanese e si laureò a Roma (dove fu allievo di Ernesto Monaci) nel giugno del 1895, discutendo una tesi sui Commediografi del Cinquecento. Insegnò a Legnano, Fabriano, Pisa. E proprio a Marina di Pisa, il 2 agosto del 1910, morì tragicamente, annegando davanti agli sguardi terrorizzati della moglie e dei suoi quattro figli. La sua produzione è cospicua. Dopo i versi giovanili raccolti in Asfodèli (Roma, Tip. Cooperativa,1892), il volume di poesie Maternità (Firenze, Il Marzocco 1899) che precedette nel tema e nel titolo un’opera di Ada Negri, fu lodato da Giosuè Carducci. Grimaldi fondò e diresse fino alla sua morte la rivista “Le Marche”, nella quale pubblicò la maggior parte dei suoi studi filologici. L’insegnamento di Ernesto Monaci agì anche in direzione della contemporaneità, verso quelle culture marginali “precipitate e nascoste nelle pieghe della storia” (Giancarlo Breschi). Ecco allora il Grimaldi-Spervengul che tra la gente del porto, nelle osterie, annota minuziosamente parole e modi di dire dialettali, cartone preparatorio per i sonetti di Brod e àcin (Fano, Società tipografica cooperativa, 1905) e per il romanzo marinaresco Maria Risorta (Torino, S.T.E.N. 1908).

La passione investigativa che lo spinge a studiare il volgare di antichi codici medievali è insomma la stessa che lo spinge a registrare le parlate popolari nelle taverne del porto. È già stato sottolineato come un borghese venisse visto come un marziano in quelle osterie, né bisogna dimenticare la netta separazione in classi sociali che a quel tempo era nitidamente percepibile (e lo è stato fino a poco tempo fa), quindi questa attenzione di Grimaldi era certamente il sintomo di una sensibilità innovativa.

Qui si aprirebbero discorsi troppo lunghi ma si può ricordare – proprio in sintesi –  che la poesia italiana, tranne qualche rara eccezione, tende per tradizione alla selezione linguistica elitaria, e di conseguenza alla selezione dei lettori (cfr. Franco Brevini, La letteratura degli italiani, Feltrinelli 2010). Non so quanto Grimaldi fosse cosciente del fatto che l’italiano era in fondo la lingua di una casta chiusa, senza contatto vivo con una parlata storica, perché in effetti nelle poesie in italiano utilizza stereotipi un po’ obsoleti, codificati e convenzionali: la lingua non tocca le cose per rivelare un sentimento che le illumina, ma le filtra attraverso un sentimentalismo ingenuo. Certamente l’aggettivazione delle poesie in lingua contrasta con la rude essenzialità del linguaggio dialettale, che si spoglia (diversamente dalle poesie in italiano) di ogni filtro letterario (come suggeriva il Belli presentando i suoi 2000 sonetti: “il numero poetico e la rima devono uscire – dice il Belli – come per accidente, in apparenza casuale, da libere frasi e correnti parole – come ce le manda – il testimonio delle orecchie”).

Se cerchiamo di collocare Grimaldi, vediamo che Salvatore Di Giacomo, di tredici anni più giovane, ha un percorso analogo: pubblica saggi sulla cultura napoletana del Settecento e poi le sue poesie dialettali. Biagio Marin, Virgilio Giotti e Delio Tessa nascono dieci anni dopo, e Grimaldi muore troppo presto per rendersi conto di che cosa sta cambiando in questo versante della cultura poetica italiana. Nella generazione degli anni ottanta ci sono anche Corazzini e Marino Moretti, oltre a Saba, ma appunto Grimaldi scompare troppo presto per confrontarsi con questi sviluppi. Solo nel 1905 esce la raccolta dialettale Brod e àcin (mosto e vinaccioli, semi dell’acino d’uva), ripubblicata nel 1975 per l’Astrogallo di Ancona con introduzione molto calibrata e lucida di Aldo Deli e otto disegni di Giorgio Spinaci.

Le intenzioni di Grimaldi, in un periodo più positivistico che romantico, sono le stesse di Giuseppe Gioachino Belli: su tutte quella di lasciare un monumento (Grimaldi direbbe un documento) “alla plebe, la sua lingua, i suoi concetti, l’indole, il costume, gli usi, le pratiche, i lumi, le credenze, i pregiudizi, le superstizioni …”

Grimaldi sceglie quasi sempre il sonetto, come misura, e le rime sono in genere quelle più usate e classiche, ma la forma metrica si modella sul parlato e sui suoi ritmi, cioè i dialoghi, che Grimaldi predilige e che consentono in qualche modo di fotografare la realtà o di registrarne il sonoro. Infatti attraverso i dialoghi in dialetto Grimaldi sperimenta questa possibilità di trasmissione sonora di un mondo altrimenti escluso dalla pagina stampata, che allora era il supporto fisico fondamentale e unico di ogni trasmissione della cultura. Detto così, sembra che Grimaldi si limiti a registrare le voci dei parlanti. Però l’autore non scompare nella oggettività delle scene. Dove si intravede l’autore? Nella sua intuizione teatrale e rappresentativa, in una sorta di gusto mimico, nella sceneggiatura. Se nelle poesie in italiano si nota una semplificazione sentimentale della realtà, nelle poesie in dialetto l’autore rimane lucido anche quando descrive o lascia intuire situazioni estreme: c’è chi “se buta sota al vapor” per la vergogna perché la moglie ha rubato un po’ di lana, ad esempio, ma il ritmo del sonetto non si scompone, è il solito parlato dialogante.

Soprattutto le donne, queste straordinarie figure femminili di Brod e àcin, sono fisicamente presenti e immediate nei loro dialoghi e racconti, così vive nelle loro preoccupazioni amorose, nelle gelosie, nelle liti furibonde o curiose nelle loro superstizioni (la fettuccia da mettere al morto che appiopperà a lui tutti i mali preservando i vivi, i numeri giocati al lotto), e poi nei balli di carnevale (dove gli istinti avevano una loro atavica giustificazione a scatenarsi), o nelle istruzioni delle anziane alle più giovani su come trattare l’altro sesso, quegli uomini che in genere parlano poco e quasi sempre emergono dai dialoghi delle donne, mogli, suocere, figlie, fino a accamparsi al centro, nel bene e nel male. È un mondo femminile fortemente subordinato a quello maschile e che per questo adotta le solite strategie difensive/offensive fino alla vendetta truce o comica.

Dunque in Grimaldi c’è questo sguardo antropologico, e questa lingua (con le sue varianti, perché Grimaldi usa anche varianti campagnole) trasversale, che accomuna ricchi e poveri, nobili e popolo: è vero – come scriveva Gabriele Ghiandoni in uno dei saggi presentati al convegno su Grimaldi del 1991 – che vi è una fuga della lingua verso la voce, cioè tutte le figure grammaticali codificate si disperdono nella grande miscelatura anarcoide delle parlate popolari, che storpiano vocaboli ed etimologie, ma nello stesso tempo possiedono una forza carnevalesca e rigenerativa che è quella da cui sono partiti poeti come Delio Tessa o Raffello Baldini. Il dialetto oggi, rilevava Ghiandoni, può essere l’espressione di una nostalgia o di un aspetto ludico della realtà, ma per Grimaldi era la scoperta di un mondo vicino, fraterno, quotidiano, persino intimo, e tuttavia sconosciuto nei suoi valori rappresentativi, umani, sociali. Così l’operazione di Grimaldi era comunque l’esatto opposto della nostra contemporanea riscoperta del localismo linguistico, che viene usato in modo letterariamente furbo o con intenzioni ideologiche per separare chi parla un idioma da chi non lo parla, chi fa parte di una comunità e chi no, chi ha diritti e chi ne ha solo una piccola parte … ecco, per l’autore di Brod e àcin il dialetto è come – per restare nell’attualità – una intercettazione telefonica: Grimaldi scopre un mondo vero attorno a lui, del quale lui stesso fa parte, e lo rivela come se lo decifrasse da un antico codice dimenticato, con esattezza filologica ma anche con affetto, con quella composta umanità che forse ci avrebbe regalato altre opere importanti.

Per una dettagliata ricostruzione bibliografica delle opere di Giulio Grimaldi si rimanda al lavoro di Giancarlo Breschi e Aldo Deli nel volume Giulio Grimaldi e la cultura marchigiana del primo ‘900, a cura di Marco Ferri, Urbino, Quattroventi 1991. Ulteriori indicazioni bibliografiche si trovano nel volume Novelle rare e inedite di Giulio Grimaldi, a cura di Massimo Fabrizi, Metauro edizioni, 2004. In Federiciana si può utilmente consultare la tesi di laurea di Katiuscia Mazzanti, Inventario delle carte di Giulio Grimaldi, Università degli Studi di Urbino, a.a. 2002-2003 (Sala Manoscritti, XVIII – 497).

Due esempi. Il primo, Anticament, è una delle poesie più belle di Grimaldi: i due versi iniziali, quasi cantabili, gettano un’ombra sul ricordo giovanile e sulla passione amorosa. Il secondo è la descrizione di una tipica scena contadina, usando il dialetto delle campagne limitrofe.

Anticament

En ciavemi la brina in tî capei,

en erivàmi a quarant’ann in dô …

Jì credeva ch’el mond fussa ‘n po’ mèi;

adèss, invec’, el so cu è ‘l mond, el so …

Lia, cla volta, era drita, sa chî bèi

dentin lucidi, mora, alta, anicò …

E j òchi?! … j òchi, pu, m’apàr de vdei!

sentivi com si v’apicàss qualcò.

Quant pasàva davanti a chel stradìn,

a vedla, malì, ferma in tel cantòn,

me tremàva le ganb … , com ma ‘n fiulìn

ch’el chiàma el méster, ch’en sa la lesiòn.

Lia fugiva, sbatènd cle ciavatìn,

e cantava, la boja … ‘Na pasiòn … !

A scanafojéa

Scanafòjen sl’era d’ Cecc dla Cacàcia : le giovne, a seda per tèra, j omne s’ i calcàgn d’ i pied: na luma, piantèta sel mucch’ del furmenton. Lavorne tùti, quanta riva la Tugnina d’ cos, na giovna ch’ è nuta pr’ ajutèa.

- Mtev a seda, Tugnina … ? – No, no ; è mèj

ch’ stèt da long più ch’ se pol … Vagg cant a Cecch …

Sit cuntènt, Cecch? – Scì, scì, mo tant, urmèi …

el farìt per fa’ gola ma I por vecch’ ! …

- Oh, badèt ma cla luma … - Ènn bej, ènn bej

sti scartòss. – Mo pro, ancora, en ènn tant secch’ …

- Quant c’ êt fatt sa cle mandle? – Ciò fatt sèi :

fan prova d’ en dè gnent … - Se bagna el becch ?

- C’è la truffa dl’ ac’tèll … - E no, en tirèt ;

dop, vànn tra i canabùcc! – Êt colt i frutt?

- À fatt da fatt ; le mèla ènn tutt machèt;

la grandina, Tirèsa, à pulìt tutt …

- Crist è stuff, fiola mia; cià gastighèt …

- Su, ragàsi! Bevrìt ; scanafojèt ! -

 

  

 

 

 

 


Dettaglio scheda
  • Data di redazione: 03.12.2014
    Ultima modifica: 05.12.2014

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