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Inquadramento geologico della media valle dell'Arzilla

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Cap. 3: Schede dei beni archeologici (Il popolamento an...

Cap. 2: Inquadramento storico delle Marche settentrionali con particolare riguardo al territorio fanese e pesarese (Il popolamento antico nella media valle dell'Arzilla)


Cap. 2: Inquadramento storico delle Marche settentrionali con particolare riguardo al territorio fanese e pesarese
Il Paleolitico

Nella Provincia di Pesaro e Urbino il paleolitico inferiore è documentato da amigdale (cioè strumenti in selce a forma di mandorla) acheuleane, tecnica questa caratteristica di tale periodo. Tale tecnica è ottenuta da un ciottolo siliceo fluitato di forma ovoide appiattita, scheggiato lungo il margine in ambedue le facce, allo scopo di creare uno strumento tagliente ed appuntito, lasciando integra, presso il tallone basale, parte dell'originario cortice, in modo da favorirne l'impugnatura (De Sanctis 1998).

Un esemplare di notevole interesse, per esecuzione tecnica e per la sua conservazione, é stato raccolto quasi alla sommità del colle di Monte Giove, a quota 120 m s.l.m., in un pianoro che forse é il lembo residuo del terrazzo quaternario più antico (De Sanctis 1988).

Caratteristiche sono anche le schegge di tecnica clactoniana, tipo di lavorazione a scheggia del paleolitico inferiore, rinvenute nella valle del torrente Tarugo vicino a Isola di Fano, e negli strati alluvionali del Metauro, a Calcinelli (Radmilli 1963, id. 1974).

Nel resto delle Marche, il paleolitico inferiore é documentato da manufatti acheuleani e clactoniani nei greti dei fiumi Nevola, Misa, Musone, Chienti, a San Severino, a Tolentino e sul monte Conero (Radmilli 1963, id. 1974).

Nella zona di Rimini il basso corso del fiume Conca ha fornito interessanti strumenti litici che, per la loro lavorazione, sono da riferirsi a tale periodo (Santoro Bianchi 1979).

L'industria litica del paleolitico medio è caratterizzata da un particolare tipo di scheggiatura della pietra, detto musteriano, trova testimonianze ad Ancona, ma anche a Monterubbiano d'Ascoli, a Iesi, a Castelplanio, lungo i fiumi Musone, Misa, Nevola; e, più vicino a Pesaro, a San Lorenzo in Campo e a Torrette di Fano (Radmilli 1975, id. 1963); rinvenimenti vi sono stati anche nelle coltri alluvionali, nei terrazzi del Metauro, e lungo la valle dell'Arzilla (De Sanctis 1998).

Sempre nel paleolitico medio si sviluppa anche un'altra tecnica di lavorazione della selce detta levalloisiana. Anche di essa troviamo testimonianze lungo il Metauro e nella valle dell'Arzilla (De Sanctis 1998).

Per il paleolitico superiore abbiamo giacimenti litici nella Grotta del Prete presso Genga, a Calcinelli di Saltara, nella località Ponte di Pietra di Arcevia, nella Grotta della Ferrovia presso Fabriano (Radmilli 1974).

Il Neolitico

Il neolitico, di durata più breve rispetto al precedente (poche migliaia di anni), si caratterizza per il nascere di nuove attività economiche che producono una svolta nel modo di vivere delle genti di allora. Tale svolta é segnata dalla nascita dell'agricoltura, che prenderà inizio, nel nostro territorio, intorno al VI millennio a.C. (De Sanctis 1988), giunta forse dal vicino Oriente, dove era già praticata fin dall'VIII-VII millennio a.C..

Tale attività produttiva si diffuse in tutto il bacino del Mediterraneo, senza soppiantare le attività di caccia, pesca e raccolta, ma affiancandole.

Questa "rivoluzione" é testimoniata dalla presenza di manufatti quali la falce per mietere e le macine per la tritatura dei semi come si vede, tutti strumenti legati al mondo dell'agricoltura.

L'innovazione tecnologica più importante è rappresentata dalla trasformazione, mediante calore, della plastica argilla in resistente terracotta.

Relativo a questo periodo ed importante per la notevole quantità di materiale ritrovato é il villaggio di San Biagio a nord-est di Fano, in vista del mare, a 2,5 km. dalla città. L'insediamento, il cui scavo risale agli inizi del secolo, ha messo in luce pozzetti d'impianto delle capanne ed ha restituito strumenti in pietra e ceramica acroma (Dall'Osso 1915, De Sanctis 1998).

Il neolitico nelle Marche fu caratterizzato da diversi correnti culturali tra queste vanno ricordate quelle della ceramica impressa, la corrente culturale di Ripoli, di Serra d'alto, di Diana e della Lagozza. Nel territorio delle Marche si conoscono solamente due villaggi risalenti alla corrente culturale della ceramica impressa e precisamente quello di Maddalena di Muccia e quello di Ripabianca di Monterado (Lollini 1965). Il villaggio di Maddalena di Muccia si trova sopra un terrazzo del fiume Chienti ed è formato da capanne disposte l'una vicino all'altra, scavate profondamente nel terreno. Da questi fondi appena menzionati provengono abbondanti ceramiche, dove si possono distinguere quattro classi. La prima ad impasto grossolano e presenta quasi tutta la superficie del vaso ornata con impressioni ad unghiate, a ditate, a cerchietti o a fasci di linee incise, talvolta disposti a spina di pesce o ad angoli contrapposti; la seconda classe è ad impasto più depurato, con superficie levigata, ad essa appartengono scodelloni, vasi a fiasco e vasi a profilo carenato. La terza classe è caratterizzata da pochi frammenti d'impasto depurato, con superficie nera levigata e lucidata; la quarta e ultima classe è rappresentata dal tipo figulino giallastro acromo (Radmilli 1974).

La cultura di Ripoli prende il nome dal villaggio di capanne situato nella contrada omonima nel territorio del Comune di Corropoli in Val Vibrata.

La ceramica della coltura di Ripoli è formata da tre categorie e precisamente quella d'impasto grossolano, quella ad impasto depurato, lisciata a stecca di colore grigiastro oppure rossastro, e la ceramica figulina giallastra.

La cultura di Ripoli ha caratterizzato tutto il periodo neolitico, ed ebbero intense relazioni commerciali con le popolazioni d'altre colture; ciò è reso noto dalla presenza d'alcuni frammenti di campignano, da pochi frammenti ceramici di tipo Sasso e di tipo Danilo, dalle forme vascolari della Lagozza e Diana.

Nelle Marche ne sono testimonianza il villaggio di Fossacesia e la stazione di Santa Maria in Selva di Treia nel territorio di Macerata. In quest'ultima sono state rinvenute quindici cavità diverse sia nella grandezza sia nella forma. Le cavità erano scavate l'una vicina all'altra e collegate tra di loro; a circa 40 m di distanza è stata messa in luce una cavità a pianta circolare con diametro di 3 m. Da questi rinvenimenti d'abitazioni provengono le ceramiche che caratterizzano la cultura di Ripoli. In tali ceramiche sono quasi assenti i tipi dipinti, i boccali monoansati e le anse antropomorfe. Nel medesimo sito sono stati rinvenuti pure diversi elementi appartenenti alla cultura della Lagozza, fra cui si ricorda un'ansa a flauto di Pan, le tipiche tazze a scodella larga e nell'ambito dell'industria litica le cuspidi a tagliente trasversale (Radmilli 1974). Sempre nel villaggio di S. Maria in Selva è stato rinvenuto un oggetto di metallo e frustoli provenienti pure dalla capanna di Fossacesia insieme a ceramica di Ripoli, a quelle di Diana, di Serra d'Alto e della Lagozza.

La presenza della cultura di Ripoli è anche attestata nelle Marche, nel villaggio rinvenuto nei pressi di Fano, i cui materiali sono andati dispersi durante l'ultima guerra. Grazie a studi effettuati sembra che i materiali provenienti dal villaggio presso Fano risultano essere molto simili a quelli di S. Maria in Selva.

Per ciò che concerne la cultura di Serra d'alto è nata in Italia dalla cultura di tipo Scaloria, perché in quest'ultima troviamo tutti i prototipi che caratterizzano la sintassi decorativa della ceramica di Serra d'alto. Essa prende il nome dalla collina omonima, vicino a Matera, dove gli scavi di Rellini e di Domenico Ridola misero in luce i resti di un fossato e d'alcune capanne.

La cultura di Diana prende il nome dalla contrada Diana Lipari, dove si hanno resti d'insediamento compresa tra santa Lucia a nord e Vallone Ponte a sud.

Nella ceramica della cultura di Diana si riconosce una classe d'impasto di colore bruno, bruno rossiccio o nerastro, con forme vascolari che si ricollegano a quelle precedenti: tazze, ciotole, coppe, ollette, bicchieri, vasi cilindrici, ed una classe di ceramica di ceramica fine ben cotta e levigata, di colore rosso-corallino, rosso violaceo o bruno-violaceo, alla quale appartengono tazze, olle e bicchieri.

Siti, con ceramiche risalenti alla cultura di Serra d'Alto e di Diana, nella Regione Marche, sono stati riscontrati solamente a S. Maria in Selva e a Fossacesia.

Mentre la cultura della Lagozza è stata introdotta da popolazioni provenienti dal Nord Italia denominata così da Pia Laviosa Zambotti. Quest'ultima cultura era basata su un'economia tipicamente agricola e sull'allevamento del bestiame.

Siti che conservano una tipica cultura lagozziana nella nostra regione sono oltre al già citato giacimento di S. Maria di Selva, quelli d'Attigio di Fabriano e di Berbentina di Sassoferrato.

Nelle Marche, come abbiamo potuto vedere, ci sono diversi siti che fanno risalire alle diverse culture di questo periodo, ma il giacimento più interessante resta quello di S. Maria di Selva.

L'Eneolitico

Tale periodo che segue il neolitico vede, accanto all'uso della pietra, l'inizio della conoscenza della metallurgia del rame.

La cultura che ha caratterizzato l'eneolitico nelle Marche e quella delle Conelle d'Arcevia. Tale cultura è caratterizzata da ceramica d'impasto grossolano, fatta frequentemente con la tecnica a cercine, comprende scodelloni a tronco di cono e pentole ovo-cilindriche, con orlo spesso rientrante e decorazioni ad impressioni digitali, a stecca o a cordoni applicati; esiste poi una ceramica d'impasto più depurato, di colore grigiastro o nerastro, lisciata e lucidata in superficie, alla quale appartengono askòi con versatoio sull'orlo, oppure con beccucci cilindrici, brocche con orlo obliquo e ciotole, alcune con linguetta sotto l'orlo, forata per la sospensione, oppure con anse ad anello impostate sull'orlo (Radmilli 1974).

A Conelle è presente anche la decorazione con disposizione geometrica di fasce di punti, alcune marginate da linee incise; gli ornamenti sono rappresentati da lamelle di zanne di Sus sagomate e forate. Sono stati inoltre trovati un idoletto piatto in corno cervino, un frammento di rame con elevato contenuto d'arsenico ed un bracciale d'arciere (Radmilli 1974).

Le genti di Conelle d'Arcevia vivevano in un villaggio risalente al periodo eneolitico. Il villaggio era posto sopra un antico terrazzo fluviale, che presenta scoscendimenti dovuti all'erosione fluviale su due lati ed è sbarrato sul lato dove poteva essere facile l'accesso da un fossato difensivo. Il villaggio su questo pianoro doveva essere formato da capanne a fior di terra, che però non sono mai state individuate; i materiali, a Conelle provengono dai livelli di riempimento di un fossato, che sembrano dovere la loro formazione a cause differenti nei diversi momenti. Si possono individuare tre fasi principali: la prima corrispondente ad una situazione di funzionalità della struttura, con scarsi materiali, ma con frammenti di grandi dimensioni per quanto riguarda la ceramica; la seconda, d'uso del fossato come discarica; la terza, connessa con un processo di colmata intenzionale e comunque caratterizzata dall'apporto di materiale sotto forma di frammenti di piccole dimensioni. Con queste tre fasi si ha una tendenziale corrispondenza delle variazioni tipologiche della ceramica (Radmilli 1974).

I siti di base di tale cultura nelle Marche sono da ricercare ad Attigio di Fabriano, Cava Giacometti e il già citato di Connelle d'Arcevia.

Alla fase più antica di Connelle dovrebbe corrispondere il livello quattro d'Attigio (Lollini 1965), dove è attestata l'applicazione di listelli sulla superficie esterna dei vasi in ceramica grossolana.

Per Cava Giacometti (Cazzella, Moscoloni, in stampa; Moscoloni 1987), i cui materiali sono piuttosto scarsi, è difficile dare un'attribuzione ad un preciso momento.

Nelle Marche, vi sono diversi siti archeologici d'età eneolitica tra questi quello risalente tra la fine del III millennio e gli inizi del II, sembra da collocare un insediamento a fondi di capanne, individuato presso il campo d'aviazione di Fano, che ha restituito materiali litici ed alcuni interessanti frammenti ceramici (De Sanctis 1998).

Reperti eneolitici sono venuti alla luce anche lungo l'Arzilla, in località Cerasa, a Montemaggiore al Metauro, ad Orciano, a Piagge, a Poggio San Giorgio e in altre località della Provincia; i ritrovamenti effettuati corrispondono a cuspidi di freccia o punte di lancia, coltelli e raschiatoi in selce (Rellini 1911, Ciavarini 1873).

Per ciò che concerne il territorio pesarese, rinvenimenti si sono effettuati nel comune di Gabicce, in località Vallugola, dove furono individuati reperti litici, fra cui una cuspide di freccia in selce variegata; tra Fiorenzuola di Focara e Pesaro, presso il Monte Castellaro, in un saggio di scavo si rinvennero schegge di selce rossa con ritocco monofacciale (Martinelli 1995). L'unico elemento completo é la cuspide di freccia di Vallugola, in selce bruna, con contorno ogivale, taglio dentellato e peduncolo ben pronunciato, da riferirsi con ogni probabilità all'eneolitico (Pericoli 1967, Veggiani 1967).

Nelle Marche tale cultura è ben rappresentata anche nei siti di Monte San Vito d'Ancona, a Vescovara d'Osimo e a Fonte Noce di Recanati (Puglisi 1959, Radmilli 1974, Alfieri 1976-77).

L'Età del Bronzo

Tale periodo, che segue l'eneolitico, fu caratterizzato da diverse correnti culturali.

Le Marche furono caratterizzate dalla civiltà appenninica, subappenninica e protovillanoviana. Il nome di civiltà appenninica (bronzo medio XVI-XIV sec. a.C.) deriva dal fatto che i giacimenti si trovano diffusi prevalentemente lungo la dorsale appenninica (Rellini 1932). Tale cultura si estese nell'Italia centro-meridionale con predominanza della pastorizia, la pratica dell'agricoltura e della caccia con nomadismo stagionale (Puglisi 1959). La ceramica era caratterizzata da due classi: una ad impasto grossolano e l'altra ad impasto depurato, di colore grigio-scuro o nerastro, lucente in superficie, definita anche ceramica "buccheroide". La cultura appenninica, in questo vasto arco di tempo, ha avuto una sua evoluzione e certamente s'articola in più fasi, ancora difficili a riconoscersi. Un'area geografica molto importante, per la formazione della cultura appenninica, è rappresentata dal territorio delle Marche. Le stazioni più interessanti, di questa cultura, sono rappresentate dalla Grotta del Grano nella Gola del Furlo (Radmilli 1974) e dal villaggio di Chiaruccia, a 3 km a sud-est di Fano, sul bordo del terrazzo olocenico, in riva sinistra del fiume Metauro, a 3 km dalla foce (De Sanctis 1998). Quest'ultimo era ubicato in posizione strategica, perché in corrispondenza di un guado che consentiva alla pista costiera di attraversare sia il fiume Metauro.

Materiale di tipo appenninico sporadico proviene da varie località del Comune d'Arcevia, nella cui contrada di Connelle si trova l'insediamento eneolitico.

Una forte concentrazione di resti, sia in grotta che in abitati all'aperto, esiste nella gola di Frasassi o del Sentino. Altri rinvenimenti riferibili alla fase appenninica vera e propria si sono avuti a Spineto.

Nella regione Marche la cultura appenninica é anche presente a Spineto, a Sassoferrato, a Pievetorina, a Filottrano, a Massignano d'Ancona (Radmilli 1974) e Monte S. Croce presso Sassoferrato. Di quest'ultima stazione è nota la composizione della fauna, nella quale i rari appaiono i resti della capra e della pecora, mentre abbondano le ossa di maiale e di bove; risulta presente il cavallo e si conosce il tipo d'abitazione, che è formato da capanne impostate a fior di terra, fatte probabilmente con pelli d'animali. Si tratta di un orizzonte omogeneo che per la forma d'alcuni vasi, alcune anse e d'alcuni motivi decorativi, deve essere riferito ad un momento tardo della cultura appenninica (Radmilli 1974). La composizione della fauna attesta un'economia di tipo misto.

Nelle Marche sono attestati dei rinvenimenti appartenenti alla cultura della civiltà subappenninica. Siti subappenninici risalenti all'età del bronzo recente (XII-XII sec. a.C.) sono stati ritrovati a Monte Francolo di Pollenza, a Pievetorina, a Bachero di Cingoli, a Santa Paolina di Filottrano, nella gola di Frasassi, ad Attiggio di Fabriano, a San Giovanni, a Fontevecchia di Camerano, a Massignano d'Ancona, nella Gola del Furlo, nella zona d'Arcevia e a Piannello di Genga (Radmilli 1974, id. 1975).

Alla foce del torrente Arzilla, presso Fano, é segnalato un insediamento con rinvenimenti di materiale archeologico risalente all'età del Bronzo (De Sanctis 1988). La ricerca di superficie ha consentito di recuperare materiale in prevalenza ceramico, ma anche litico che non solo consente un miglior inquadramento del giacimento stesso nell'ambito della media-tarda età del Bronzo, ma lascia supporre che il sito fosse abitato in epoca anteriore che posteriore a tale età (De Sanctis 1988). Gli elementi fondamentali per una valutazione dell'insediamento potranno fornirli solo i dati di scavo. Per ora, si può riconfermare un'attribuzione dell'insediamento (nella fase della sua massima consistenza) alla media-tarda età del Bronzo (cultura appenninica e subappenninica sec. XVI-XII a.C.) (De Sanctis 1988). A ciò conducono soprattutto le tecniche e le sintassi decorative della ceramica con la presenza di cordoni plastici, bande incise campite di punti o trattini, anse e prese tipiche di questa fase culturale (De Sanctis 1988). Nel medesimo sito sono stati rinvenuti pure reperti litici rappresentati dall'ascia-martello forata, da certi tipi di cuspidi e da elementi di falcetto, tutti riconducibili a manufatti tipici dell'orizzonte culturale eneolitico e taluni al precedente orizzonte neolitico (De Sanctis 1988).

La cultura protovillanoviana, attribuibile cronologicamente all'età del bronzo finale (fine II millennio a.C.) e agli inizi dell'età del ferro (inizi I millennio a.C.), è caratterizzata da sepolcreti a cremazione, sparsi in varie parti della penisola.

In tali sepolcreti sono stati rinvenuti vari reperti tra cui si vuole menzionare delle fibule ad arco di violino con noduli (ma non quelle ad arco di violino foliato con noduli) e ad arco di violino rialzato ritorto (Peroni 1989) e inoltre sono presenti ceramiche, rappresentate principalmente dal vaso cinerario biconico e da ciotole carenate con decorazione a fasci di solcature, a coppelle o a bozze plastiche (Peroni 1989).

La presenza della cultura protovillanoviana é documentata, nella provincia, da reperti sporadici venuti alla luce a Monte San Marco di Montecopiolo e a Monte Aquilone di Perticara.

Nel primo caso sono stati rinvenuti frammenti ceramici: una fuseruola e una fibula di bronzo; nel secondo caso materiale ceramico e uno spillone bronzeo (Lollini 1979).

Per la regione Marche, le testimonianze relative a tale cultura ci provengono dall'abitato del colle dei Cappuccini d'Ancona, da Massignano d'Ancona, da Monte Croce Guardia d'Arcevia, dalla grotta delle Moniche nella gola del Sentino, da Santa Paolina di Filottrano, da Bachero di Cingoli e Monte Francolo di Pollenza, con materiali vari, a Serra San Quirico e nella necropoli di Pianello di Genga (Radmilli 1975, Lollini 1979).

Come si è visto, anche in questo territorio la maggior parte delle ormai numerose stazioni risale ad una fase tarda e non ci offre elementi che permettano di conoscere la sua evoluzione in posto.

L'Età del Ferro e la Cultura Picena

Dalla prima età del ferro (inizi I millennio a.C.) s'iniziano a delineare e a definirsi, su tutto il territorio della penisola, genti e culture diverse.

La suddivisione dell'Italia in undici regioni, voluta da Augusto, ci dà l'idea del mosaico di popolazioni che l'abitavano.

Il popolo che abitò il nostro territorio fu quello dei Piceni, i quali poi daranno il nome alla Regio V Picenum.

Nella zona di Pesaro tale periodo é caratterizzato da un particolare aspetto della civiltà picena: la necropoli di Novilara. Vi sono altre testimonianze, anche se minori, provenienti da Roncosambaccio di Fano e da Osteria del Fosso, in località Fosso Sejore, dove sono state rinvenute sepolture con corredo (Martinelli 1995). Nel centro storico di Pesaro è stato, inoltre, rinvenuto un insediamento d'età preromana (Martinelli 1995). Di questi ritrovamenti si parlerà più ampiamente in seguito. Ritornando ora alla civiltà picena, sappiamo che nasce durante l'età del ferro (tra IX e III sec. a.C.), lungo la costa adriatica occidentale e più precisamente nel tratto compreso tra i fiumi Foglia e Saline o meglio Pescara (Aternus). Tale zona era delimitata ad ovest dalla catena appenninica (Lollini 1976). Questa zona di confine è stata oggetto di discussione. Quasi tutti gli studiosi erano concordi nell'identificare gli Appennini e il Foglia con il limite occidentale e settentrionale, mentre per il limite meridionale diverse sono state le opinioni. Infatti, il Brizio (Brizio 1982) lo fissava al Chienti, il Dall'Osso (Dall'Osso 1915) al Tronto, il Messerschmidt (Messerschmidt 1939) al Tordino, il Dumitrescu (Dumitrescu 1929) al Saline fino ad Alfedena (Randalli Mc Iver 1927). In verità, in seguito a nuove scoperte, come i ritrovamenti di necropoli a Loreto Aprutino e Campovalano e d'insediamenti a Martinsicuro e a Del Colle del Telegrafo presso Pescara, si è in grado d'ipotizzare un'estensione di tale civiltà fino al fiume Pescara (Arias 1965, Mori-Tozzi 1970). Inoltre, altri rinvenimenti effettuati a Rimini, S. Martino in Gattara, a Russi fanno ipotizzare un'influenza di questa cultura se non forse una sua espansione fuori dal confine nord. Di conseguenza l'area d'estensione della civiltà picena non corrisponderebbe né con le attuali Marche, né con il Picenum, che era delimitato a nord dall'Esino e comprendeva le Marche e parte dell'Abruzzo.

Per capire chi erano "i Piceni" sono di grande aiuto le fonti antiche in cui, spesso, si trovano riferimenti al popolamento preromano nelle Marche attuali. Tali fonti antiche attestano che, durante il periodo preromano, le Marche furono "abitate" da diversi gruppi etnici. Un'importante fonte letteraria ci viene dal Periplo (paragr. 16) dello Pseudo Scilace, datato verso la metà del IV sec. a.C., per Peretti deriverebbe da un nucleo originale risalente all'inizio del V sec. a.C. (Peretti 1979). Nel Periplo la città d'Ancona viene collocata tra gli Umbri. Con ciò le genti che hanno abitato, durante l'età del ferro, la zona tra il fiume Foglia e Pesacara (Aternus) devono essere appartenute alla stirpe degli Umbri. A quest'affermazione si ricollega Plinio (Nat. Hist. III, 112) quando, descrivendo la VI regio augustea, dice che appartenne prima ai Siculi e ai Liburni, poi agli Umbri, agli Etruschi ed infine ai Galli. Plinio, nel suo passo, conferma quanto detto nel Periplo riguardo all'origine sabina assegnata dalla tradizione antica ai Piceni, dal momento che i Sabini erano considerati una diramazione degli Umbri autoctoni.

Anche Strabone (V, 1, 11; V, 4, 2), in alcuni passi, dice che la regione abitata dai Celti, in origine, si estendeva fino all'Esino, invece quella dei Piceni iniziava a sud d'Ancona. Descrivendo l'Umbria, Strabone (V, 2, 10) dice che arrivava sino all'Adriatico e che sulla costa il territorio partiva da Ravenna e comprendeva anche Rimini e Senigallia. Questa notizia torna poi nel passo dove Strabone parla del Piceno e dove si legge che le città degli Umbri si trovavano fra Rimini e Ancona e che oltre Ancona cominciava il territorio dei Piceni (Str. V, 4, 2).

Inizialmente queste furono le fonti a disposizione per delineare la storia del territorio piceno in età preromana. Ma a partire dal XIX sec. furono effettuate diverse scoperte archeologiche tra cui una cinquantina circa di necropoli riferibili alla civiltà picena. Tra esse le più rilevanti sono: Novilara, Osimo, Numana, Offida, Monteroberto, Tolentino, Cupramarittima-Grottamare. Grazie, anche, a queste scoperte numerose sono le teorie espresse attualmente riguardanti l'origine della civiltà picena. La teoria formulata da Dall'Osso ipotizza che il popolo piceno sia il risultato della fusione d'immigrati achei, arrivati dalla Grecia insieme agli indigeni e che il loro legame con l'età del bronzo sia da vedersi nel vasellame ceramico. Dall'Osso sostiene anche l'origine preellenica di queste popolazioni, la quale sarebbe documentata dal materiale archeologico, dalla mitografia e dalla toponomastica. Il Dumitrescu (Dumitrescu 1929) e il Randall McIver (Randall McIver 1924) sono propensi nel ritenere che tale civiltà ebbe un origine autoctona. Il Dumitrescu ritiene che ci possa essere stata una possibilità d'immigrazione d'Illirici e Sabini, assorbiti in seguito dagli indigeni di razza ligure; il Mc Iver attribuisce ai Piceni le necropoli marchigiane e quelle dell'area villanoviano-laziale, risalenti all'età del Ferro, che presentano sepolture ad inumazione.

Secondo il Suic (Suic 1953), alla fine del II millennio a.C., un numero molto alto di popolazioni illiriche approdò sulla costa occidentale dell'Adriatico; tra questi figurano i Liburni, i Dauni, i Peuceti, i Salentini. A suo parere, dopo l'inizio del I millennio a.C., i Liburni furono i soli a dominare il mar Adriatico avendo come punti d'appoggio, lungo le coste, Corfù e Faro, insieme a Adria e il Piceno.

Il Batovic (Batovic 1972) sostiene che le migrazioni pannonico-balcane furono la causa di un movimento di genti illiriche, che attraversarono l'Adriatico per poi insediarsi soprattutto nella zona centrale e meridionale della penisola italica e rispettivamente nel Piceno e nell'Apulia. Fra queste genti i Liburni riuscirono ad assumere una grande rilevanza, a partire dall'VIII sec. a.C., grazie alla forza dei commerci. Il tipo di sepoltura rannicchiata del Piceno trova riscontro nel modo utilizzato dai Liburni nell'inumare i morti, col corpo contratto e adagiato sul fianco sinistro.

Anche il rituale funerario dell'inumazione può essere considerato una testimonianza della persistenza di caratteri propri della civiltà appenninica, che si confermano nelle civiltà italiche successive.

Per il Pallottino (Pallottino 1978) la civiltà picena va identificata con quella più antica degli Italici. Essi parlavano un dialetto di tipo osco-umbro-sabino, popolavano le valli dell'Appennino umbro-marchigiano e il versante medio-adriatico. Probabilmente, in origine, avevano una denominazione comune riconducibile alla radice sabh-, da cui i nomi di Sabini, Sabelli, Sanniti.

La Giacomelli (Giacomelli 1960) impiega il nome di Asili (Silio Italico lo utilizza per menzionare i più antichi abitatori del Piceno) per indicare sia il popolo nord-piceno (Novilara), sia i popoli del sud (Liburni).

Ritornando alle scoperte archeologiche delle necropoli, tra di esse quella più interessante (per la considerevole documentazione restituita) resta la necropoli di Novilara, anche se rinvenimenti di una certa entità, attribuiti ad un insediamento piceno, sono anche quelli attestati nel centro storico di Pesaro. Quest'ultimi furono scoperti nel 1977, nell'angolo fra via Galligarie e via Mazza. In seguito a studi su frammenti di ceramica attica e su ceramica di produzione locale, si è ipotizzata una datazione di quest'abitato tra la fine del VI sec. a.C. fino agli inizi del IV sec. a.C.. Nonostante ciò, Novilara resta uno dei siti più considerevoli scoperti nel nostro territorio. A Novilara, i corredi dei sepolcreti Molaroni e Servici e le stesse stele pongono problemi non solo di lingua, ma anche di definizione cronologica e d'identificazione etnica e culturale. Questo, spesso, ha fatto sì che gli studiosi assumessero posizioni differenti. Il dibattito resta ancora oggi aperto, soprattutto a causa della diversità fra la lingua delle stele novilaresi, convenzionalmente definita come "nord-picena" e quella delle iscrizioni rinvenute a sud dell'Esino, che non permettono d'approdare ad una soluzione unica riguardo l'origine di queste genti e la loro appartenenza o meno alla cultura picena (Campagnoli 1999). Su quanto detto, Delia Lollini, pur rilevando l'unicità e la diversità della lingua delle stele, ritiene che l'affinità archeologica con i ritrovamenti effettuati a sud dell'Esino sia già un valido motivo per collocare Novilara nel circuito culturale piceno (Lollini 1976). L'ipotesi della Lollini è attualmente quella condivisa dalla maggior parte degli studiosi, che si occupano del popolamento d'età preistorica nelle Marche settentrionali (Campagnoli 1999). Diverso è invece il giudizio delineato da Giovanni Colonna. Secondo il suo parere già nel tardo VII sec. a.C. gli Umbri avevano dato vita a una subregione culturalmente omogenea, estesa dalla Romagna all'Esino, mentre gli elementi più propriamente "medio-adriatici" (definizione che egli preferisce al termine "piceno") si ritrovano a sud dell'Esino, fiume che sembra così assumere un ruolo di confine ben prima dell'arrivo dei Galli Senoni. Secondo Giovanni Colonna, la documentazione epigrafica dimostra che, nel corso del VI e V sec. a.C. a Novilara si trovavano genti che non erano né etrusche, né umbre, sebbene assimilate culturalmente a questi loro vicini. Queste genti parlavano ancora la loro antica lingua e vanno identificate con quelli che le fonti chiamano Pelasgi (Colonna 1985). Mauro Cristofani sostiene, invece, che le genti di Novilara siano emigrate da qualche zona del Caput Adriae per arrivare ad occupare, al pari degli Etruschi della val Marecchia, una zona della costa a nord d'Ancona (Cristofani 1995).

Da considerare importanti sono gli studi di G. Colonna nei quali egli affronta il problema della presenza umbra nelle Marche settentrionali. Tale presenza, per Colonna, è documentata, nell'area romagnola, da diversi ritrovamenti archeologici, infatti, due insediamenti, attribuiti agli Umbri, sono stati scoperti sulle alture di Monte Faggeto e Monte Maggiore nelle vicinanze di Montefiore Conca al confine tra l'Emilia Romagna e le Marche. Essi sono rispettivamente datati al VI-V sec. a.C. e al V sec. a.C. (Romagna 1981). Anche durante gli anni Cinquanta, a S. Giovanni in Marignano, furono rinvenuti materiali (ceramica d'impasto, frammento di calice in bucchero, due frammenti di ceramica attica) che attestano la frequentazione del sito fra IX e IV sec. a.C. (Fontemaggi, Piolanti 1998). A tale riguardo, Delia Lollini sostiene che in origine i Piceni erano una "tribù periferica", che apparteneva al gruppo degli Umbro-Sabelli e solo successivamente il nome "piceno" indicherà queste genti che popoleranno le Marche e parte dell'Abruzzo settentrionale (Lollini 1976). Il pensiero della Lollini è condiviso dal Briquel. Il Briquel vuole mettere in risalto le somiglianze fra i corredi delle tombe picene (datate al VI-V sec. a.C.), rinvenute a sud dell'Esino, e i corredi delle tombe, valutate come umbre, rinvenute nell'area romagnola (Briquel 1984).

Altri studiosi sono concordi nel considerare, che quando Strabone, in un suo passo, sottolinea che le città degli Umbri si trovavano tra Rimini ed Ancona, non voglia fare riferimento alla situazione d'età preromana, ma alludere alla divisione dell'Italia in regio, voluta d'Augusto, in cui quest'area assume il nome di regio VI.

Lo stesso Strabone, nel voler mostrare falso il confine amministrativo fra Umbria e Galia Cisalpina e nello stesso tempo la volontà di far uso di fonti precedenti (riguardanti la divisione dell'Italia in regioni) fa sì che si possa ipotizzare, che Strabone, nel suo passo, faccia riferimento ad una situazione geografica più antica rispetto a quella voluta d'Augusto.

Nonostante le diverse opinioni espresse dagli studiosi e qui riportate, si può affermare che, in ogni modo, le fonti antiche e i dati archeologici confermano che, nel VI e V sec. a.C., anche la Valle del Foglia era luogo d'unione d'elementi etnici e culturali diversi. Basti pensare a Novilara, all'insediamento d'età preromana messo in luce a Pesaro, entrambi attribuiti alla civiltà picena; al contrario i rinvenimenti effettuati nella media ed alta valle sembrano da collocarsi "in ambiente umbro".

Per Cristofani (Cristofani 1995) l'espansione umbra, che si fa risalire al VI-V sec. a.C., non è dovuta a dei movimenti coloniali che provenivano dal centro dell'Italia, ma dipende da un'organizzazione amministrativa di una realtà etnica, che si era già stanziata nel territorio. La finalità degli Umbri era difendere i passi montani, ma soprattutto cercare di trovare una degna risposta riguardo al processo di ricolonizzazione dell'area riminese, attuato nel corso del VI sec. a.C. dagli Etruschi (che provenivano per lo più da Volsini e Chiusi), creando così dei gruppi di tipo submontano diretti verso la pianura. Difatti, gli Etruschi parteciparono a questi contatti ricolonizzando nel VI sec. l'area riminese. Anche i mercanti greci avevano questi contatti con altre etnie. Ciò è dimostrato dal ritrovamento di ceramica attica, a figure nere e rosse effettuato lungo la costa marchigiana (abitato preromano di Pesaro e a S. Maria di Focara). Rinvenimenti si sono anche avuti nell'interno delle vallate fluviali, per esempio nella valle del Foglia, in località Montecchio, è stata rinvenuta una tomba con ceramica attica a figure rosse, datata al V sec. a.C. (Ceramica attica 1991), oppure alla periferia di Sestino, nella località Travicello, il rinvenimento di un abitato protostorico ha portato alla luce frammenti di ceramica attica e di ceramica ad impasto, datati alla prima metà del V sec. a.C. (Luni 1992).

L'invasione dei Galli Senoni

L'arrivo dei Galli Senoni, nell'area marchigiana, portò senz'altro a notevoli mutamenti nel quadro insediativo e culturale. Nella valle del Foglia, l'assoluta mancanza di dati archeologici per il IV e il III sec. a.C. e la frammentarietà e sporadicità di quelli riferibili alla fase precedente non consentono di cogliere l'entità di questi cambiamenti.

Le prime notizie sull'arrivo dei Galli Senoni in Italia ci vengono da Polibio.

Lo storico ricorda che nel territorio posto a sud del Po, fino all'Appennino, presero dimora gli Anari, poi i Boi, poi, in direzione dell'Adriatico, i Lingoni e per ultimi, lungo la costa, i Senoni (Polibio II, 17, 7).

Si può affermare che l'arrivo dei Senoni nelle Marche sia datato agli inizi del IV sec. a.C. e fu contemporaneo all'arrivo di altri gruppi celtici.

Livio afferma (V, 35, 3) che il territorio occupato dai Senoni era delimitato dai fiumi Utens e Aesis; mentre tutti gli studiosi sono d'accordo nel riconoscere il limite meridionale nell'Esino, discordanti sono le tesi avanzate per il limite settentrionale.

Alcuni identificano l'Utens con il Montone (Nissen 1902, Peyre 1979), un corso d'acqua situato a sud di Ravenna, altri con il torrente Uso, posto poco a nord di Rimini (Amat Sabattini 1990), altri ancora con il Ronco (Ortalli 1990).

Daniele Vitali ha recentemente riaffrontato tale argomento. Egli considera che l'Utens, di cui parla Livio, corrisponda al fiume che nelle diverse edizioni del testo pliniano sulla regio VIII, viene indicato come Utis-Vitis-Vites (Plinio, Nat. Hist. III,115) tenendo conto anche del fatto che, durante l'età medievale, il corso dell'attuale Bidente, compreso fra S. Sofia e Galeata, veniva chiamato "Viti". Vitali identifica l'Utens di Livio con il Bidente che, a valle di Meldola, prima di raggiungere la pianura, muta il suo nome in Ronco (Vitali 1993).

Recenti studi condotti da Gianfranco Paci (Paci 1998) dimostrano che non bisogna cadere nell'errore di considerare il termine ager Gallicus come equivalente al territorio occupato dai Senoni. Con il termine ager Gallicus si vuole solamente indicare il territorio sottratto ai Senoni, da parte dei Romani, nel III sec. a.C., dopo la loro definitiva sconfitta, e non l'ambito geografico che questi occuparono al loro arrivo in Italia.

Di conseguenza, secondo Paci, non é detto che vi sia un'esatta sovrapposizione tra l'agro Gallico, ricordato nelle fonti e l'area in cui s'insediò questa popolazione.

Paci studia, inoltre, il problema relativo al limite occidentale dell'ager Gallicus, cioè del confine fra il territorio sottratto ai Senoni e l'area abitata dagli Umbri, che diventerà poi la VI regio, cioè l'Umbria.

Grazie agli studi di natura politico-amministrativo condotti sulle comunità a nord dell'Esino dopo la romanizzazione, Paci afferma che appartenevano all'Umbria le comunità caratterizzate da una costituzione quattorvirale, mentre all'ager Gallicus appartenevano quelle governate dai duoviri; si ricordano Forum Sempronii, Suasa, Ostra, Ariminum, Pisaurum, Fanum Fortunae, Sena Gallica e Aesis. Per Paci, il confine fra le due aree, tenuto anche conto della situazione geomorfologica, va collocato nel punto di passaggio fra il settore collinare della fascia paracostiera e le prime dorsali appenniniche interne.

La proposta di Paci di differenziare l'ager Gallicus (cioè il territorio sottratto dai Romani ai Senoni nel III sec. a. C.) dal territorio occupato dai Senoni, ci permette di superare la divergenza tra quanto detto dalla tradizione letteraria e quanto riportato dalla documentazione archeologica, riguardo all'esistenza gallica nel Piceno settentrionale e nell'Umbria orientale (Campagnoli 1999), esistenza attestata anche dopo la sconfitta del 283 a.C..

Si conoscono, infatti, diversi rinvenimenti attribuiti ai Senoni (in base ai corredi tombali rinvenuti) e datati entro la metà del IV sec. a.C.. Essi sono stati effettuati a sud dell'Esino, in diversi sepolcreti, come a San Filippo d'Osimo e a Santa Paolina di Filottrano e in diverse tombe isolate, come a S. Ginesio (Campagnoli 1999).

Materiali gallici, riferibili al IV e III sec. a.C., si trovano nel territorio umbro, nelle necropoli di Piobbico (Vitali 1987), in alcune sepolture a Cagli (Paleani 1981), nelle tombe di Moscano di Fabriano (Landolfi 1987) e Matelica (Mercando 1970, Lollini 1978, Paci 1998).

Nonostante la complessità della questione, che ancora oggi è oggetto di studio e dibattito, è importante sottolineare che gli sudi di Paci permettono di giustificare la presenza di Galli Senoni anche in queste zone (Campagnoli 1999), senza per questo non ritenere veritiere le fonti letterarie, visto che il passo di Livio riguardante l'Esino deve essere interpretato come segnalazione del confine meridionale dell'ager Gallicus e non come limite insuperabile raggiunto dai Senoni nelle Marche (Campagnoli 1999). Anche se non sappiamo di preciso dove s'insediarono i Senoni presenti nel Piceno settentrionale e nell'Umbria orientale, sembra però importante e valida l'opinione di Paola Piana Agostinetti che ipotizza, che il popolamento di questa zona delle Marche, durante il IV e III sec. a.C., fosse complesso e che incerta e vaga sembra che fosse la distinzione fra l'area occupata dai Galli, quella degli Umbri a nord e dei Piceni a sud (Piana Agostinetti 1992).

La conquista dell'Ager Gallicus

Tale conquista s'inserisce in un quadro d'espansione coloniale, adottato dai Romani nell'Italia peninsulare nel IV e III sec. a.C. (Harris 1971, Humbert 1978, Toynbee 1981, Bandelli 1988, Luni 1995, Bandelli-Coarelli-Paci 1998).

La vittoria riportata nella battaglia del Sentino (295 a.C.), da parte dei due consoli romani Publio Decio Mure e Quinto Fabio Rulliano, aveva gettato le fondamenta per la conquista di tutta la regione medio-adriatica.

Discordanti sono le opinioni riguardo ai popoli che presero parte a tale battaglia.

Polibio (II, 19, 5-6) ci narra di un esercito composto solo di Sanniti e Galli, che fu annientato nel corso della battaglia. Duride, nella citazione di Diodoro (XXI, 6), racconta della presenza di Etruschi, Galli, Sanniti ed altri alleati.

Livio (X, 27-29) narra che l'esercito antiromano era formato da Sanniti, Galli, Etruschi ed Umbri, ma che alla battaglia presero parte solo Sanniti e Galli perché gli Etruschi dovevano difendere il territorio di Chiusi, gli Umbri, dall'altra parte, dovevano attaccare l'accampamento romano, nel momento in cui aveva inizio il combattimento.

Discordanti sono anche le opinioni degli scrittori moderni, che ritengono che lo scontro fu per lo più sostenuto dai Sanniti e dai Galli e che la partecipazione degli Etruschi, se ci fu, fu solo secondaria (Campagnoli 1999). In ogni modo, la maggioranza degli studiosi identifica i Galli (che parteciparono allo scontro con Roma) con i Senoni, nonostante il ruolo di quest'ultimi, all'interno di quest'alleanza, sia stato motivo di controversie fra gli studiosi stessi. Brigitte Amat (Amat 1992), in un suo recente studio sulla guerra tra Galli e Senoni, evidenzia come possa apparire ambiguo, nelle fonti antiche (in particolare in Livio), il ruolo avuto da questo popolo all'interno delle alleanze che si opposero all'espansionismo romano. Secondo Amat i Galli presero parte alle battaglie che precedettero quella di Sentinum solamente, come milizie mercenarie. Nonostante ciò, con la battaglia di Sentino sembra che i Galli inizino a far parte della coalizione antiromana non solo come potenza militare, ma anche come popolo. Brigitte Amat sostiene che questo mutamento così improvviso non possa dipendere da un cambiamento della politica dei Galli, ma da un cambiamento nella narrazione di Livio. Nella descrizione degli avvenimenti Tito Livio riporta il contenuto delle lettere mandate da Appio Claudio al Senato romano, per far sì che quest'ultimo si occupasse del problema relativo all'Etruria. In tali lettere Appio Claudio parla di una sollevazione dei Galli, e non del fatto che parteciparono alla battaglia, come in realtà avvenne, al fine di persuadere il Senato ad intervenire in maniera risolutiva.

Nonostante le opinioni diverse sui fatti accaduti, tutte le fonti sono però d'accordo nel dichiarare la sconfitta dei Senoni, ad opera dell'esercito romano. Ce ne parlano ad esempio, Polibio (II, 19,11), Appiano (Samn. 6, 3-4; Celt., 11, 3-4), Strabone (V, 1, 6; V,1,10) ed indirettamente anche Dionigi d'Alicarnasso (XIX, 13, 1). Polibio narra chi i Romani uccisero gran parte dei Senoni, liberarono la zona dagli ultimi superstiti diventando così padroni del territorio. Appiano ricorda che il console Cornelio rese schiavi donne e bambini ed uccise tutti coloro che si dedicavano all'attività militare. Strabone e Dionigi D'Alicarnasso, riguardo all'uccisione dei Senoni, evidenziano che, tra i membri dell'ambasceria mandata a Pirro c'era Publio Cornelio. Quest'ultimo vinse, tre anni prima, la guerra contro i Senoni e fece uccidere tutti i maschi d'età adulta. Al contrario, gli archeologi testimoniano l'esistenza di necropoli galliche datate posteriormente a tale evento (Landolfi 1978) e una sopravvivenza di gruppi di Senoni sulle alture attorno alla media valle dell'Esino e nella zona di Cagli.

Riguardo a tale disaccordo tra fonti letterarie ed archeologiche é intervenuta, di recente, Brigitte Amat. Secondo la studiosa, i passi d'Appiano hanno un intento didattico e moralistico, e il contenuto del racconto di Polibio è stato enfatizzato dagli studiosi, quindi, concludendo, per Amat non ci fu un genocidio, ma una lunga lotta che ebbe come conseguenza la distruzione della potenza militare dei Senoni (Amat 1992).

Con questo ipotesi non concordano diversi storici che ritengono che non si possa rifiutare il dato fornito dalle fonti antiche sul massacro in massa dei Senoni. Paci ritiene la divergenza, fra fonti letterarie ed archeologiche, "più apparente che reale", poiché tracce di una sopravvivenza di Senoni posteriori al 283 a.C. si pongono al di fuori o ai margini dell'ager Gallicus, in zone che non "subirono" la conquista romana e la successiva confisca dei territori. Forse, é possibile affermare, secondo Paci, che gruppi di Senoni continuarono a vivere in questa zona, anche dopo la battaglia di Sentino, perché abitanti di un'area che non era oggetto di confisca da parte dei Romani (Paci 1998).

Dopo la sconfitta del 295 a.C., la romanizzazione dellager Gallicus continuò attraverso la fondazione, in zone considerate "strategiche", delle colonie di Sena Gallica, fondata nel 283 a.C. (alcuni non concordano con tale data, ma avanzano l'ipotesi che la colonia sia stata "creata" negli anni successivi alla battaglia di Sentinum, fra il 290 e il 288 a. C.) (Fraccaro 1919, De Sanctis 1990, Brizzi 1995) e d'Ariminum, la cui fondazione risale al 268 a.C. (Mansuelli 1941; Liv., Per. XV; Vell., I, 14, 7; Eutr. II, 16). Sena Gallica era una delle coloniae maritimae romane, mentre Ariminum era colonia di diritto latino.

Nel 232 a.C. la lex Flaminia de agro Gallico et Piceno viritim dividundo e nel 220 a.C. l'apertura della via Flaminia segnarono la definitiva dominazione di Roma sulle Marche settentrionali. In particolare le assegnazioni viritane furono importanti per la romanizzazione d'aree marchigiane, visto che l'arrivo dei coloni produsse l'occupazione di nuovi territori.

Un problema relativo a tale legge è quello d'identificare zone dove avvennero le assegnazioni; qui le testimonianze che si trovano nelle fonti sono vaghe. Polibio (II, 21, 7 – 9) narra che i Romani, durante il consolato di M. Emilio Lepido, effettuarono la suddivisione del territorio piceno, su ordine di Caio Flaminio, da dove avevano cacciato i Senoni. Secondo Polibio questa suddivisione del territorio fu poi il motivo che portò i Galli (soprattutto i Boi) a "ribellarsi" perché preoccupati d'essere oggetto della fine, che già fecero i Senoni. Catone parla (Varro, De r. r., I, 2, 7) di "ager Gallicus Romanus" per indicare il territorio interessato dalla legge e Valerio Massimo (V, 4, 5)di "ager Gallicus et Picenus".

Ciò ha portato gli studiosi ad identificare zone diverse interessate dalla lex e con una denominazione diversa; ad esempio Plinio Fraccaro ed Emilio Gabba usano per tali aree gli appellativi ager Gallicus et Picenus e ager Gallicus Picenus (Fraccaro 1919, Gabba 1979).

Gabba vuole indicare con la sua espressione quella parte del Piceno settentrionale dove si sono effettuati dei rinvenimenti, che si fanno risalire ai Senoni. Il termine usato da Gabba non trova riscontro nelle fonti letterarie, dove spesso si parla di due ambiti territoriali differenti nel senso giuridico- amministrativo (concetto sottolineato da Paci nei suoi studi). Infatti, Paci colloca lager Gallicus a nord dell'Esino, mentre lager Picenus lo situa a sud dell'Esino. Fraccaro, invece, privilegia l'analisi degli aspetti istituzionali, politici e sociali voluti dalla legge, tralasciando il problema della questione territoriale.

Gianfranco Paci, sulla base di documenti epigrafici in lingua latina del III sec. a.C., scoperti a Cingulum e a Cupra Montana, ipotizza la presenza, nelle zone del Piceno settentrionale, d'assegnazioni viritane (Paci 1986). Moscatelli, inoltre, valutando gli studi di Paci e Gabba, ha osservato che la lex può aver interessato la zona compresa tra i fiumi Esino e Musone, a nord, e il Chienti, a sud (Moscatelli 1985, Gabba 1990). Altri studiosi escludono l'ipotesi d'assegnazioni viritane a sud dell'Esino (Hermon 1989, Peruzzi 1990, Oebel 1993).

La fondazione della colonia di Pisaurum

E' Livio (XXXIX, 44, 10) a narrare che, nel 184 a.C., nell'ager Gallicus fu dedotta la colonia di Pisaurum. Tale fondazione costituiva un punto importante per il compimento del processo di romanizzazione del territorio, iniziato con la fondazione di Ariminum e Sena, con le assegnazioni viritane del 232 a.C., attuate anche in questa zona, e con l'apertura della via Flaminia nel 220 a.C..

Pisaurum nacque in prossimità della costa, in quel luogo dove il conciliabulum civium Romanorum si era già formato e che aveva come centro della propria vita religiosa il vicino lucus (Di Luca 1995).

La colonia occupò la parte più alta di un antico conoide deltizio, rilevato sulla piana circostante (Campagnoli, Dall'Aglio 1997) e profondamente inciso a nord-ovest da un antico alveo del fiume Foglia.

Il lato a mare era delimitato da una falesia morta, non molto alta, ma sufficiente a proteggere l'abitato dalle mareggiate; questo alto morfologico offriva condizioni favorevoli all'insediamento anche in età preromana. Ciò é dimostrato dai rinvenimenti di strutture abitative indigene, individuate a Pesaro nel 1977, fra via delle Galligarie e via Mazza, appena all'interno della cinta muraria d'età romana e a ridosso dell'alta scarpata fluviale incisa dall'antico ramo di foce del Pisaurus (Luni 1982-82, id. 1995).

Questa antica falesia morta è ben riconoscibile più a sud, dalla base del monte Ardizio fino a Fano, e costituisce il limite nord-orientale del terrazzo su cui sorsero le città di Fanum Fortunae e Pisaurum. A ridosso di questa scarpata fu costruita la cortina muraria dei due antichi centri, prospiciente la linea di costa (Luni 1995).

Come dice Livio, Pisaurum e Potenza Picena furono fondate nel 184 a. C.. Entrambe le colonie si collocano in area adriatica, uguali sono anche i triumviri coloniae deducendae. Essi erano tre magistrati nominati dal governo centrale con il compito di fondare un nuovo insediamento, d'effettuare la divisione del territorio per poi distribuirlo assegnandolo ai singoli coloni. Fra i triumviri il più noto fu certamente Quinto Fulvio Nobiliore (Broughton 1951).

Livio (XLI, 27, 11-12) ci parla anche della costruzione della città di Pesaro e d'opere pubbliche fatte realizzare dal censore Q. Fulvio Flacco, ma purtroppo il passo manca d'alcune parti quindi difficile ne risulta la sua interpretazione.

Secondo Luni nel 174 a.C. il censore Q. Fulvio Flacco fece lastricare la via Flaminia, erigere un tempio a Giove, promuovere la realizzazione delle fogne e delle mura di cinta e, infine, edificare intorno al foro delle taberne e dei portici, mentre esclude la realizzazione dell'acquedotto (Luni 1995, Campagnoli 1999).
La tesi di Luni é condivisa da Christiane Delplace (Delplace 1993).

Lo stesso Braccesi esclude la costruzione dell'acquedotto, condivide la costruzione del tempio di Giove e la lastricazione della via consolare, mentre ritiene possibili, ma non certi, gli interventi relativi all'impianto fognario, alle mura cittadine e alla sistemazione del foro (Braccesi 1995).

Per l'esistenza del tempio di Giove non abbiamo ritrovamenti a riguardo, almeno per il momento. Solo Delplace lo vuole porre sotto la chiesa di S. Domenico (Delplace 1993), mentre l'Olivieri ipotizzava che fosse ubicato nell'area dove attualmente c'è la Cattedrale (Olivieri 1737). Luni e Braccesi, riguardo alla strada, sembrano rifarsi al tratto urbano della Flaminia, che costituiva il decumanus maximus della città (Luni 1995, Dall'Aglio 1998), l'intervento potrebbe, però, aver interessato il kardo maximus, cioè l'attuale via Branca e via Rossini, perché probabilmente la via consolare era già stata lastricata nell'anno della sua apertura (220 a.C.).

Per le altre "costruzioni", che ricorda Livio, abbiamo poche notizie poiché il passo in questione è mutilo; di certo non vi sono elementi che permettano di escluderle.

Dopo le testimonianze di Livio sulla colonia di Pisaurum, nelle fonti letterarie antiche, non si parla e non si menziona più la città per oltre un secolo.

L'unica singolarità è rappresentata da due prodigia narrati da Giulio Ossequente, che comunque non sono importanti per avere un quadro migliore sulla storia e l'urbanistica di Pisaurum in età repubblicana. Notizie rilevanti su Pisaurum riappaiono nelle fonti letterarie, in connessione con la lotta fra Cesare e Pompeo. Cesare ci racconta (Bellum Civ., I, 11, 4) che "nel 49 a.C., dopo aver varcato il Rubicone, mosse in armi da Rimini occupando Pesaro, Fano, Ancona", invece, secondo Cicerone (Cic., Ad famil., XVI, 12, 2), tali città aprirono le porte a Cesare visto che quest'ultimo aveva occupato Pesaro, Fano ed Ancona; Pisaurum fu così coinvolta nelle guerre civili (Campagnoli 1999).

Da non scordare che la fondazione di Pisaurum fu senz'altro favorita dal naturale approdo marittimo, costituito dalla foce del Foglia, secondo Nereo Alfieri, questa città fu molto legata, rispetto ad altre, al proprio porto fluviale (Alfieri 1990).

La conquista romana di Fanum Fortunae

Fanum Fortunae, come Pisaurum, subì, dopo la battaglia di Sentino, la colonizzazione romana. In questo periodo un evento fondamentale é rappresentato, da parte dei Romani, dalla fondazione, nel 220 a.C., della via consolare Flaminia (Luni 1995).

Pochi sono i dati relativi alla storia di Fanum Fortunae, ad esempio, di essa, non conosciamo l'anno della sua fondazione, a differenza delle vicine Sena Gallica (288 a.C.), Ariminum (268 a.C.) e Pisaurum (184 a.C.), (De Sanctis 1998).

Nel nome della città vi é un riferimento ad un'area sacra o tempio (Fanum), dedicato al culto della dea Fortuna (De Sanctis 1998).

Fanum Fortunae la ritroviamo collocata nella Tabula Peutingeriana, copia medievale di una precedente carta stradale romana illustrata (itineraria picta) del IV sec. d.C., con l'indicazione Fano Fortune, affiancata da una "vignetta" nella quale i topografi vogliano vedere la raffigurazione del tempio della dea Fortuna, che doveva sorgere a Fano (De Sanctis 1998).

Secondo De Sanctis si può ipotizzare che, attorno al luogo di culto, considerato un luogo importante dove si riunivano gli abitanti di un territorio, sia nato un "aggregato con caratteri urbanistici spontanei". Tale aggregato, per De Sanctis, andò a formarsi "sull'unica porzione di terreno più vicina al mare, elevata di una decina di metri, lembo residuo delle alluvioni quaternarie sabbioso-ciottolose, risparmiato dai due vicini corsi d'acqua: l'Arzilla (nella carta Nelurum) ed il Metauro (Mataurus) (De Sanctis 1998).

Fanum Fortunae viene anche citata in un passo di Caio Giulio Cesare (Bellm Civ. I,11,4) dove si parla della città di Fano insieme a Pesaro e ad Ancona. Cesare afferma che tale città fu fatta presidiare da una coorte quando, nel 49 a.C., Cesare stesso fece varcare alle sue legioni il Rubicone, in direzione del Piceno settentrionale e di Roma (Pisaurum, Fanum, Anconam singulis cohortibus occupatum) (De Sanctis 1998).

Tra le testimonianze rinvenute, quella di una certa importanza è rappresentata da un cippo (detto erroneamente cippo graccano) in realtà è un'epigrafe che attesta la restitutio, cioè il ripristino che Marco Terenzio Varrone Lucullo attuò degli svariati cippi terminali, posti dalla commissione agraria del 132 a.C.. E' conservato al Museo Civico di Fano ed é stato rinvenuto nel 1735 a San Cesareo (Paci 1995, De Sanctis 1998).

Il cippo consiste in un grosso parallelepipedo in arenaria locale, alto cm 108, largo cm 33 e spesso cm 28. Il cippo é rimasto praticamente integro, a parte una scheggiatura presente nell'angolo inferiore sinistro e di alcuni punti della superficie scritta, che hanno subito un processo di corrosione, arrecando qualche danno a delle lettere ed infine gli spigoli superiori, che sono in parte rovinati (Paci 1995).

Il testo dell'epigrafe si dispone su nove linee, che vanno da margine a margine, e le lettere sono incise con un solco triangolare e profondo, quest'ultime sono tutte alte uguali, cm 3,5 (Paci 1995).

Il cippo mette in evidenza un duplice intervento dello stato romano nella valle del Metauro. Quest'intervento aveva lo scopo di recuperare, tramite funzionari di natura diversa, terreni di proprietà del demanio, che erano finiti in maniera illecita nelle mani dei privati.

Il provvedimento di Lucullo, come già detto, vuole ripristinare i confini dell'ager publicus, così come erano stati fissati dalla commissione agraria del 132 a.C., composta da Publio Licinio, Appio Claudio e Gaio Gracco (Paci 1995). Tale commissione aveva lavorato in seno alla lex Sempronia agraria approvata, nel 133 a.C., da Tiberio Gracco. Il suo obiettivo finale era quello di riappropriarsi delle terre del demanio (che erano in mano alla Stato), sottratte dai privati e destinate ad essere poi distribuite tra i meno abbienti (Paci 1995).

La rifondazione antoniana ed augustea di Pisaurum e Fanum Fortunae in età augustea

La rifondazione antoniana di Pisaurum é comunemente accettata (Gabba 1970; Sommella 1988; Alfieri, Gasperini, Paci, 1985; Braccesi 1995) e si colloca nell'ambito delle colonie triumvirali, la cui deduzione fu decisa nell'incontro di Bologna del 43 a.C., al quale presero parte Ottaviano, Antonio e Lepido (Keppie 1983). Gli studiosi sono concordi nel ritenere che la colonia militare fosse stata dedotta per sistemare i veterani reduci dalla battaglia di Filippi, combattuta nel 42 a.C., contro gli uccisori di Cesare; il terminus ante quem dovrebbe essere il bellum Persinum, per cui la fondazione sarebbe avvenuta tra la fine del 42 a.C. e gli inizi del 41 a.C. (Paci 1998).

Il rinvenimento, nell'area urbana, di due epigrafi, testimoniano che, nella media età imperiale, l'appellativo ufficiale della città era colonia Iulia Felix Pisaurum.

La prima epigrafe è una tabula patronatus (C.I.L., XI, 6335) in bronzo, del collegium fabrum, datata a diem (5 gennaio del 256 d.C.) e la seconda è un basamento di marmo grigio, d'età traianea o di poco successiva (C.I.L., XI, 6377), nel quale si ricorda la ricca donazione voluta da C. Titius Valentinus a beneficio del popolo di Pesaro (Cresci Marrone, Mennella 1984).

L'appellativo Iulia vuole fare riferimento ad una deduzione promossa da Ottaviano prima del 27 a.C., in un periodo in cui egli non aveva ancora assunto l'epiteto di Augustus (Gabba 1953, cresci Marrone 1995, Luni 1995, Braccesi 1995, Paci 1998), sebbene sia stato ipotizzato che, tale titolo, potrebbe anche indicare una deduzione triumvirale (Alfieri 1992).

All'inizio l'appellativo Felix, aveva fatto pensare ad un'eventuale ricolonizzazione d'età sillana (Zicari 1969). Invece sembra dovuto in parte a dei riconoscimenti conferiti ad Augusto dalla città e in parte a vincoli famigliari (Cresci Marrone, Mannella 1984). Diversi rinvenimenti archeologici confermano il forte legame fra la famiglia imperiale e la città durante il periodo augusteo. Tra questi ritrovamenti i principali sono alcune teste di statue onorarie di personaggi della domus augustea in particolare quelle di Livia o Ottavia (Fabbrini 1956-7, Braccesi 1967-68), di Caio Cesare (Fabbrini 1955, Zanker 1973, Rebecchi 1981) e forse d'Augusto da giovane (Martinelli 1995); inoltre sono da ricordare varie dediche che si rivolgono ai componenti della famiglia augustea.

Per ciò che concerne la città di Fano, essa assunse, durante il periodo augusteo, la denominazione di Colonia Iulia Fanestris o anche Colonia Iulia Fanum Fortunae (De Sanctis 1999).

Durante la ripartizione dell'Italia in regioni, voluta da Augusto, Fanum fece parte della regio VI (De Sanctis 1998).

In epoca augustea l'abitato si estendeva su un'area di 18 ettari, il suo tracciato era formato da un reticolato di cardi e decumani. Ques'ultimo è ancora oggi in massima parte leggibile sia in superficie, sia attraverso il sistema fognario tuttora in uso (De Sanctis 1998).

A sud-ovest della città, oltre la parte murata, la centuriazione estendeva i suoi limites marittimi e montani per non meno di 48 centurie, sino ad arrivare alla sponda sinistra del fiume Metauro (De Sanctis 1998).

L'impianto urbanistico di Pisaurum

I primi studi sull'assetto urbanistico della Pesaro romana furono svolti nei primi anni Sessanta, quando Giovanni Annibaldi e Italo Zicari suggerirono, sulla base di ritrovamenti avvenuti nei secoli precedenti, una ricostruzione del perimetro murario, del reticolo viario interno e degli isolati (Annibaldi 1965, Zicari, 1969). Per il loro studio Annibaldi e Zicari si servirono degli scritti di due importanti eruditi locali, il cui operato risale al Settecento e all'Ottocento. Si tratta dell'Olivieri (Brancati 1985; Atti del Convegno di Studi "Annibale degli Abbati Olivieri, 1708-1789" Pesaro 27-28/ 09/ 1994 in "Studia Oliveriana, n. s. 15-18, 1995-1998"), al quale va il merito di aver recuperato molti reperti, di cui la maggior parte è conservata presso il Museo Oliveriano, e di averci trasmesso numerose preziose informazioni circa ritrovamenti di materiali; e del Grossi. Più recentemente Mario Luni ha riconsultato tutta la documentazione, non tralasciando alcune nuove ed importanti scoperte, che si riferivano per lo più alle mura perimetrali. Luni ha avanzato la proposta di una ricostruzione più completa dell'andamento della cinta difensiva, per almeno tre dei quattro lati in cui essa si componeva (Luni 1995). Questa cinta era il confine di un'area rettangolare lunga circa 490 m e larga circa 330 m, con asse maggiore disposto parallelamente a quello della vallata fluviale. Lungo i due lati corti, le mura avevano un andamento rettilineo: la cortina orientale correva poco a monte della modesta falesia litoranea, mentre quella occidentale si snodava parallelamente alle attuali via delle Galligarie e via Cattaneo. Le mura settentrionali seguivano il margine dell'antica scarpata fluviale del Foglia, per cui, nel loro tratto mediano, presentavano un'inflessione verso l'interno dell'area urbana. Per ciò che riguarda l'andamento della parte meridionale, si pongono problemi maggiori. Per la parte meridionale non possediamo attestazioni archeologiche, per cui il suo tracciato è basato solamente su ipotesi. A differenza delle ricostruzioni proposte da Mengaroni e successivamente da Annibaldi e Zicari, che la ponevano di poco all'esterno (carta di Mengaroni) o sulla stessa linea (Annibaldi e Zicari) delle fortificazioni roveresche, al contrario Mario Luni ipotizza un tracciato di poco più arretrato, all'interno degli attuali viale Gramsci e piazza Matteotti (Luni 1995). Luni sostiene che le mura meridionali si raccordassero alla cortina orientale non ad angolo retto, come avveniva negli altri tre vertici della cinta, ma con un breve tratto ad andamento curvilineo.

Lungo il perimetro fortificato delle mura, secondo Luni, s'aprivano quattro porte, una per lato, ma solo per quella occidentale (Porta Collina) si hanno riscontri archeologici (Martinelli 1995). Considerazioni di carattere topografico attestano la sicura presenza anche della porta settentrionale (Porta Rimini o Ravegnana) e di quella meridionale (Porta Fanestra), poiché queste erano i punti di entrata e di uscita del tratto urbano della via Flaminia. Secondo Paolo Campagnoli è meno probabile l'ipotesi che ci potesse essere una porta anche lungo il lato orientale, quello che costeggiava il litorale. Per questa non si hanno né ritrovamenti archeologici, né significative argomentazioni urbanistiche e viarie che possano essere di sostegno a questa ipotesi. Infatti, le mura orientali si trovavano a poca distanza dalla linea di costa (all'epoca ben più arretrata di quell'attuale) per cui il kardo maximus non avrebbe potuto continuare fuori dalla città. Neanche un collegamento necessario fra l'area urbana e il porto fluviale sembrerebbe giustificare la presenza di questa porta, la fascia litoranea, posta fra le mura orientali e il mare, era così stretta ed esposta alle mareggiate che non costituiva certo una via di comunicazione sicura con lo scalo sul Pisaurus; questo poteva essere raggiunto più facilmente uscendo dalla città attraverso Porta Rimini, per poi costeggiare la foce del fiume. In conclusione l'apertura di una porta, anche sul lato a mare delle mura, potrebbe essere avvenuta solo per esigenze di tipo strategico-militare (Luni 1992).

Le mura si caratterizzano per la presenza simultanea di tre tecniche edilizie differenti, che nello stesso tempo si riferiscono a tre distinte fasi costruttive. Comunque mancano dati stratigrafici o documenti di tipo epigrafico che ne permettano una datazione sicura. L'utilizzo di pietra locale, nell'opera quadrata, è evidente nella parte inferiore del tratto di cortina muraria, ancora oggi in vista lungo via delle Galligarie. Quest'ultimo tratto di mura risale alla fase più antica della colonia, coincidente con il momento della sua fondazione o con l'intervento del censore Q. Fulvio Flacco nel 174 a.C. (Luni 1995). Tale tipo di tecnica costruttiva si può benissimo datare all'età repubblicana (Lugli 1957 Adam, 1988) e trova interessanti riscontri in ambito regionale. La presenza di mura repubblicane, in opus quadratum, è infatti ben documentata in diversi centri dell'area marchigiana, quali ad esempio Urvinum Mataurense (Luni 1993). Sopra i tratti in opera quadrata s'imposta una poderosa struttura in laterizio. Questa è stata datata da Giovanni Annibaldi all'età augustea (Annibaldi 1965), mentre Mario Luni la fa risalire al III secolo d.C. (Luni 1995), in un periodo in cui le invasioni barbariche raggiungevano anche queste zone. Infatti, nel 270 a.C., gli Iutungi, dopo aver attraversato le Alpi, si erano spinti fino in Puglia. Sulla strada del ritorno, questi furono sconfitti da Aureliano sul Metauro, nei pressi di Fanum Fortunae. Due basi in marmo iscritte testimoniano la grande preoccupazione che l'arrivo d'invasioni barbariche provocava nei cittadini e la riconoscenza nei confronti dell'imperatore vincitore dei barbari. La prima base in marmo è una dedica onoraria a Hercules, consors dell'imperatore Aureliano, e viene solitamente datata agli anni 270-271 d.C. (Cresci Marrone- Mennella, 1984); la seconda iscrizione celebra la Victoria Aeterna riportata da Aureliano e riflette il momento di grande euforia conseguente al trionfo militare e allo scampato pericolo (Cresci Marrone-Mennella, 1984). Tutte e due le basi sono state poste a cura di Caio Giulio Prisciano, funzionario equestre di rango ducenario, che oltre ad essere curator rei publicae Pisaurensium et Fanestri, era anche praepositus muris. Secondo la cronologia proposta da Luni, la ristrutturazione delle mura pesaresi rientrerebbe, dunque, in quel più generale processo di consolidamento o ripristino delle difese perimetrali che coinvolse in questo periodo molte città della penisola, compresa Roma, dove proprio Aureliano promosse l'edificazione delle mura che, da lui, presero il nome.

Recentemente Gianfranco Paci, partendo dal presupposto che "ogni colonia deve avere le sue mura", ha evidenziato che l'assenza di una cinta muraria correlata alla colonia triumvirale, è un fatto singolare. Per Paci si deve perciò ritenere che, alla fine del I secolo a.C., la vecchia cinta repubblicana fosse ancora in ottime condizioni o, che, non essendovi il bisogno di modificare il percorso, si siano riedificate solo le parti degradate (Paci 1998). La terza e ultima fase edilizia delle mura di Pesaro è usualmente datata alla prima metà del VI secolo d.C., quando la città fu coinvolta nella guerra greco-gotica (535-553 d.C.). Procopio (Procop., Bellum., Goth., III, 11, 32-34) narra che Vitige, re dei Goti, aveva in parte distrutto le mura della città e che, nel 545, Belisario, dopo aver rioccupato Pesaro, le fece restaurare utilizzando materiali di ogni tipo, raccolti, un po' ovunque, nell'area dell'abitato ormai devastato. Nei secoli scorsi, in prossimità delle mura romane sono state recuperate numerose iscrizioni e vario materiale architettonico. Tali rinvenimenti si sono effettuati soprattutto durante la demolizione di Porta Collina, avvenuta nel Cinquecento, e negli scavi di Palazzo Barignani, presso Porta Rimini (Luni 1989), anche se in realtà non è sempre certa la relazione di questi materiali lapidei con il ripristino della cinta perimetrale (Dall'Aglio, 1998).

Per ciò che concerne l'impianto urbanistico, Giovanni Annibaldi (Annibaldi 1965) ha supposto una suddivisione in isolati rettangolari, scandita da due cardini e quattro decumani, proponendo uno schema che è stato accolto anche da Antonio Zicari (Zicari 1969). Il kardo maximus corrisponde alle attuali via Branca via Rossini, mentre nella via San Francesco e nel corso XI Settembre è riconoscibile il decumanus maximus, costituito dal tratto urbano della via Flaminia. Il cardine e il decumano s'incontravano presso il vertice nord orientale dell'attuale piazza del Popolo, dove s'ipotizza la presenza del foro. Gli isolati avevano una forma rettangolare ed erano disposti con l'asse maggiore in senso nord sud: a nord del decumano si trovava solo una fila di isolati, mentre a sud di esso ve n'erano due, per un totale di 14 isolati. L'ipotesi di Mario Luni, sulla ricostruzione delle mura, si differenzia dalle precedenti per la divisione della città sulla base di quattro e non di due cardini, di conseguenza si formano venticinque isolati rettangolari, disposti su cinque file, e con l'asse maggiore orientato parallelamente ai cardini (Luni 1995). Sia nella ricostruzione proposta da Annibaldi e Zicari, sia in quella ipotizzata da Luni, il tracciato dei cardini e decumani minori non sempre coincide con l'attuale assetto viario e, in base alla documentazione edita, ha avuto un riscontro archeologico limitatamente a due casi (Martinelli 1995). Inalterato fino ai nostri giorni si è mantenuto il tracciato del kardo e del decumanus maximi (Martinelli 1995). Nonostante ciò una scoperta recentemente effettuata costringe a riconsiderare le ipotesi finora proposte. Nell'area compresa fra via Mazzolari e via Abbondanza, proprio all'interno di uno degli isolati ipotizzati sia da Annibaldi e Zicari, sia da Luni, è stato messo in luce un tratto di strada basolata ampia tre metri, che non coincide con nessun asse viario odierno, visto che si trova sotto Palazzo Mazzolari. Grazie a questo ritrovamento, si può pensare che, anche a Pesaro, come nella vicina Fano (Alfieri 1992), gli isolati periferici avessero un'estensione minore rispetto a quelli centrali e non arrivassero fino alla cinta muraria, ma terminassero prima.

La scarsità dei dati archeologici, che fino ad ora si conoscono, appare più evidente nel momento in cui si affronta il problema della conoscenza topografica e architettonica dell'edilizia pubblica e privata. Un'opera pubblica per la quale abbiamo una buona documentazione è l'acquedotto, che fino al 1976 ha assicurato parte del fabbisogno idrico alla città (Dall'Aglio et Alii 1989, Acquedotto, 1990, Novilara, 1997). Esso si alimentava nella zona di Novilara e scendeva interrato per la vallecola significativamente denominata "dei condotti" e percorsa dall'omonimo rio. Il condotto è costruito in laterizio, dei tratti sono in pietra o sono scavati direttamente nelle bancate arenacee, e il suo tracciato è facilmente individuabile grazie all'affioramento di pozzetti di ispezione dal piano di campagna. Giunto al termine della valle, l'acquedotto scavalcava la via Flaminia con una serie di archi, per poi riproseguire sotterraneo in direzione della città. Sappiamo poi, solo dalle fonti letterarie ed epigrafiche, che a Pisaurum erano presenti vari edifici di culto, terme, un teatro e un anfiteatro. Della testimonianza liviana, relativa all'edificazione nel 174 a.C. di un tempio dedicato a Giove e dei ritrovamenti riferibili ad un probabile cesareo, si è già parlato.

Testimonianze epigrafiche si hanno anche di un tempietto o sacello dedicato a Priapus (Cresci Marrone-Mennella 1984). Alcuni mosaici pavimentali a soggetto marino sembrano appartenenti a complessi termali, pubblici o privati, la cui presenza è attestata anche dal già citato passo ciceroniano, in cui si ricorda la disonestà del balneator Insteius, e da testimonianze epigrafiche, come l'iscrizione che annovera "oleum in balineis" fra le varie donazioni date da Caius Aufidius Verus alla cittadinanza pisaurense (Cresci Marrone-Mennella 1984).

Scarsa è la documentazione a nostra disposizione per la città di Pisaurum. Questo ci permette di formulare solo ipotesi riguardo alla distribuzione degli spazi pubblici e privati all'interno della città. La stessa ubicazione del foro, sotto l'attuale piazza del Popolo, è basata su argomenti di carattere urbanistico e topografico, quali la centralità di questo spazio e la sua collocazione all'incrocio tra i due assi viari principali (Cresci Marrone, Mennella 1984). Allo stesso tempo anche l'ipotesi che il Capitolium si trovi sotto la chiesa di San Domenico si basa su valutazioni molto simili, a dispetto di ciò non ha ancora trovato un riscontro archeologico. Anche la testimonianza dell'Olivieri d'ipotizzare che il teatro o l'anfiteatro potessero trovarsi nella zona dove, nel 1296, i Malatesta fecero costruire la Fortezza del Tentamento, non è attestata da alcun ritrovamento (Olivieri 1774, Olivieri 1779).

Anche nel campo dell'edilizia privata si possono solo avanzare delle ipotesi. e delle considerazioni di carattere generale. Un dato importante è costituito dal gran numero di mosaici pavimentali che testimoniano una notevole fioritura edilizia, nei primi due secoli dell'impero e che sono indizio di una diffusa prosperità economica (Mercando 1995). Spesso, i ritrovamenti più antichi sono andati perduti, ma fondamentali, per il loro studio, sono i disegni realizzati soprattutto da Annibale degli Abbati Olivieri Giordani e conservati presso la Biblioteca Oliveriana (Mercando 1995). I dati disponibili, per le scoperte avvenute nei primi decenni del secondo dopoguerra, in occasione di lavori edilizi, sono sostanzialmente limitati all'ubicazione topografica e ad una sintetica descrizione del tappeto musivo. Lo stesso fatto di lavorare velocemente e in condizioni disagiate, raramente ha consentito annotazioni di tipo stratigrafico o riguardanti il contesto architettonico di appartenenza. C'è da aggiungere che la maggior parte di questi recuperi d'emergenza ha riguardato singoli vani, facenti parte di complessi che, senz'altro, erano considerati importanti per la loro estensione e bellezza architettonica, dei quali risulta impossibile anche la semplice conoscenza a livello tipologico e funzionale.


Dettaglio scheda
  • Data di redazione: 12.10.2004
    Ultima modifica: 12.10.2004

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